giovedì, Maggio 2 2024

Nel ricostruire, ci rendiamo conto, troppo sinteticamente le vicende che caratterizzarono le migrazioni interne al nostro Paese dall’immediato Secondo Dopoguerra alla fine degli anni settanta, emergono alcuni elementi che sembra  opportuno richiamare in questo rapido percorso.

Alla fine della Seconda Guerra mondiale l’Italia era un Paese prevalentemente agricolo, con una popolazione con ampie sacche di  analfabetismo e legata saldamente alla propria terra di origine. La gran parte delle persone nasceva e moriva nello stesso territorio senza mai uscire dal proprio comune di residenza, questo anche grazie alla visione rurale e antiurbanista che aveva contrassegnato il ventennio fascista. Ciò che emerge con chiarezza è che l’Italia repubblicana, pur nella prospettiva di una profonda modernizzazione del Paese, nell’immediato dopoguerra nutre lo stesso timore del regime di veder concentrate nelle grandi città masse di diseredati facile preda delle teorie antiborghesi e rivoluzionarie.  Per questo non cancella, fino al 1961, la legislazione voluta dal fascismo per impedire la concentrazione della popolazione nelle metropoli.

Un secondo elemento appare chiaramente: oltre alla “dialettica” nord – sud ampiamente studiata e documentata, lo studio dei flussi ci racconta di una seconda dialettica, forse più rilevante della prima, che è quella tra città e campagna. Possiamo, infatti, sostenere che una delle conseguenze della grande migrazione interna sia stata il tramonto definitivo dell’Italia rurale, di una cultura millenaria che si è spezzata nel confronto con l’urbanizzazione. Gli emigranti, lasciando la propria terra e i propri affetti hanno infatti reciso il legame  con la propria cultura, con le proprie tradizioni. Pensiamo solo alla religiosità, un sentimento primordiale, spesso legato a riti e devozioni, nel meridione d’Italia, più vicini al paganesimo che alla fede, che aveva guidato e normato per secoli la vita  di intere popolazioni tramandandosi lungo  il  tempo e le generazioni. E così i legami familiari, regolati da tradizioni ancestrali, basati sulla famiglia “allargata”, sulla solidarietà diffusa, recisi definitivamente lasciando chi era costretto ad emigrare, in particolare i giovani, orfani non dei soli un genitori ma di un intero “clan”.

La spinta a lasciare il paese natale, i familiari e tutti gli altri parenti, strappo lacerante per una cultura comunitaria come quella meridionale, scaturiva dalle aspettative di miglioramento dei singoli e delle loro stesse famiglie che sopportavano il sacrificio in vista di una promozione economica e sociale del figlio. Niente di molto diverso da quanto è sempre accaduto nel fenomeno dell’emigrazione, conosciuto da vaste regioni d’Italia, non solo meridionali.

Ma questa volta, pur continuando ad esistere un flusso verso l’estero, il grosso dell’emigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta si diresse all’interno della penisola, lungo l’asse Sud – Nord e tutti i traumi legati allo sradicamento cui è abitualmente sottoposto l’emigrante si fecero sentire esclusivamente all’interno della società nazionale, creando una massa critica di potenziale protesta e contestazione del sistema produttivo vigente. (D. Breschi, La lunga vigilia del Sessantotto. Appunti per una genealogia della “nuova sinistra” italiana. In B. Coccia (a cura di) 40 anni dopo: il Sessantotto in Italia fra storia, società e cultura. Editrice Apes, Roma 2008, p. 70).

 

In questa efficace analisi Danilo Breschi richiama un ulteriore elemento. Le tensioni legate ad una migrazione che molto spesso non aveva trovato le adeguate risposte alle attese e aspirazioni che l’avevano determinata, crearono nelle grandi città, in particolare al nord, quella  “massa critica di potenziale protesta e contestazione del sistema produttivo vigente” che alla fine degli anni Sessanta confluirà e alimenterà quel diffuso movimento di protesta, talvolta anche violento e con tratti insurrezionali, che costituì una delle componenti del ’68 italiano. Così Ugo Ascoli riscostruisce questo fenomeno:

In un primo momento i meridionali reagirono cercando di lavorare il più possibile, di guadagnare di più nel minor tempo possibile, per poter conquistare una condizione di vita dignitosa ed essere in grado di richiamare la famiglia.[…] In un secondo momento prende corpo sempre più un processo di omogeneizzazione nel luogo di lavoro; si manifestano forme di solidarietà di classe; c’è l’incontro fra i meridionali e le organizzazioni del movimento operaio; e allora tutta la rabbia repressa, la carica giovanile, l’odio contro i vari volti con i quali si mostra la società metropolitana (dall’affittacamere al negoziante, dal collocatore al capo in fabbrica) pongono gli immigrati all’avanguardia dei movimenti di lotta. (U. Ascoli, Movimenti migratori in Italia. P. 149).

 

In definitiva possiamo dire che “la grande migrazione interna” ha contribuito con il sacrificio di una intera generazione di emigranti alla realizzazione del cosiddetto boom economico degli anni Sessanta. Più che di miracolo economico si trattò di un repentino, enorme sviluppo realizzato creando profitto a spese di masse di emigrati  costretti a lavorare a poco prezzo e spesso senza alcuna garanzia e tutela  e a vivere non di rado in condizioni di estremo disagio. Ma soprattutto, come sottolinea opportunamente Silvio Lanaro, la “grande migrazione interna” ha realizzato, a cento anni dell’Unità d’Italia, “l’effettiva unificazione sociale  e demografica del Paese”( S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90. p. 268).

 

 

 

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