lunedì, Aprile 29 2024

Sul piano dell’impatto socio-culturale e delle condizioni di vita e di lavoro, le migrazioni interne del Secondo Dopoguerra hanno rappresentato un fenomeno molto complesso. Basti pensare che tra il 1955 e il 1971, 9.140.000 persone lasciarono la propria regione d’origine, per comprendere la dimensione oltre che la complessità del fenomeno.

Pur nel variare delle situazioni da una regione all’altra e da un anno all’altro, il trasferimento verso le grandi città del Centro-Nord ha spesso assunto tratti drammatici, in particolare per i migranti d’origine meridionale, improvvisamente portati a confrontarsi con una realtà tanto diversa da quella di provenienza.

Una delle conseguenze della rinascita industriale del nostro Paese, e non solo della grande industria ma anche delle piccole e medie imprese sparse nel territorio nazionale che ben presto rappresentarono l’ossatura dell’apparato industriale italiano, è che migliaia di contadini “si trasformarono in operai rompendo il vincolo millenario con la terra che aveva caratterizzato l’esperienza biografica delle generazioni precedenti” (F. Salsano, Consumi e stili di vita degli italiani dalla ricostruzione agli anni Ottanta: dalla miseria alle nuove povertà. in B. Coccia (a cura di) La quarta settimana degli italiani: i consumi e il risparmio degli italiani che non arrivano alla fine del mese. Editrice Apes, Roma 2009. p. 259).

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Nonostante si rimanesse all’interno dei confini nazionali, la distanza tra i modelli culturali di riferimento era tale da rendere la migrazione in qualche modo analoga a un trasferimento all’estero: lasciare il Sud per il Nord significava ritrovarsi in un mondo diverso, caratterizzato da abitudini, stili di vita, regole di comportamento, rigore morale, modi di pensare differenti e spesso ostili. L’estraneità rispetto al nuovo contesto di riferimento era anche rimarcata dalle difficoltà di comunicazione: la condivisione di una stessa lingua era infatti più teorica che reale, in quanto chi migrava si esprimeva generalmente tramite il dialetto caratteristico dell’area di origine.

Agli inizi degli anni ’50,  il 59,2% degli adulti italiani non ha neanche la licenza elementare e molto più della metà di questi si dichiarano spontaneamente, al censimento ISTAT del 1951, analfabeti. Agli inizi degli anni ’60 solo il 20% della popolazione italiana, concentrata soprattutto in Toscana e nelle due maggiori città del Paese, parlava abitualmente italiano. Il 18% parlava sia italiano che il dialetto ma più del 60% della popolazione italiana parlava solo dialetto. Questo, a nostro avviso, fondamentale dato di fatto, non sempre tenuto nella giusta considerazione, ha molto condizionato non solo le “traiettorie” dei flussi migratori, spesso orientate a zone dialettalmente affini, ma ha anche dato luogo e alimentato  diffidenze e incomprensioni, sulle quali torneremo tra poco, quando questi flussi erano diretti verso zone nelle quali si parlava italiano o un dialetto diverso.

Non solo: per effetto delle leggi fasciste del 1928, del 1931 e del 1939, delle quali abbiamo ampiamente parlato, che sancivano limitazioni fortissime alla mobilità interna e all’inurbamento e che rimasero in vigore fino al 1961, un qualsiasi bracciante che tentasse di migliorare le proprie condizioni di vita trasferendosi nei centri industriali del Nord, era sul piano formale un irregolare, con tutto ciò che ne consegue quanto all’accesso ai diritti e ai servizi. L’ambigua situazione legislativa rendeva, infatti, i migranti particolarmente esposti ai rischi dell’esclusione sociale, intrappolandoli in un paradossale circolo chiuso: non potevano trovare lavoro se non avevano la residenza e, allo stesso tempo, non potevano ottenere la residenza se non dimostravano di avere un’occupazione. Facilmente ricattabili dai datori di lavoro e dai padroni di casa, finivano spesso intrappolati nelle maglie del “caporalato”, alla mercé di industriali e imprenditori alla ricerca di manodopera a basso costo e scarsamente sindacalizzata. Sulla condizione di “clandestini del mercato del lavoro nella loro stessa patria” nella quale erano costretti gli immigrati a causa della sopravvivenza di questa legge si sofferma Amalia Spinelli.

Nel dopoguerra questa legge […] non rimase tutta via senza effetti: se non fu utilizzata per bloccare l’urbanesimo e per trattenere la popolazione nelle campagne, valse però a trasformare una parte cospicua degli immigrati in fuorilegge, una sorta di clandestini del mercato del lavoro nella loro stessa patria.

C’è appena bisogno di notare che questa circostanza facilitava enormemente la possibilità di sfruttare il loro lavoro e rendeva estremamente flessibile il loro impegno: e con effetti tanto più incisivi e devastanti quanto maggiore era la debolezza contrattuale, sul mercato del lavoro dei luoghi di immigrazione, delle diverse fasce di immigrati (A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in, Storia dell’Italia Repubblicana.).

 

La sopravvivenza della legislazione del 1939 fino al 1961 sembra giustificata, almeno fino all’inizio della ripresa industriale nel nostro Paese ovvero quando si presenta la necessità di concentrare nei distretti industriali grandi quantità di mano d’opera, da due fattori. Da un lato, la paura del Governo circa la concentrazione nelle città di grandi quantità di diseredati in cerca di fortuna, sostanzialmente la stessa che avevano alimentato  la campagna  antiurbanizzazione promossa dal regime fascista; dall’altro la volontà  di mantenere la forza lavoro affluita nelle città in una condizione di debolezza “allo scopo di garantire al padronato maggiori possibilità di sfruttamento”.

Per mitigare gli effetti di questi provvedimenti, nel 1953 il ministro dell’Interno Scelba fu costretto ad emanare una Circolare che sancì il divieto di ricondurre i migranti interni ai luoghi di origine con foglio di via obbligatorio.

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