lunedì, Aprile 28 2025

Se l’emigrazione estera può essere considerata uno degli elementi caratterizzanti gli anni della ricostruzione (1946-1955) con una media annua di trecentomila unità, l’intero Secondo Dopoguerra è anche il periodo di maggiore intensificazione del trasferimento interregionale di quote della popolazione italiana. Le profonde trasformazioni che  l’economia italiana e la stessa società vissero in quegli anni  ebbero  come protagoniste masse di lavoratori  che lasciarono la propria terra natale per trasferirsi, temporaneamente o definitivamente, in zone più o meno vicine del paese, tanto da far definire a Eugenio Sonnino quel periodo come  “gli anni della grande migrazione interna” (E. Sonnino, La popolazione italiana: dall’espansione al contenimento. In Storia dell’Italia repubblicana. Einaudi, Torino, 1995, vol. 2 La trasformazione dell’Italia. Sviluppi e squilibri, pp. 529- 585).  Questa migrazione si svolse con modalità diverse: migrazioni di brevissima distanza per abbandonare le aree particolarmente ferite dalla guerra; migrazioni di breve distanza dalle aree rurali verso le città e  migrazioni di lunga distanza dalle aree povere verso le zone di forte industrializzazione o crescita economica.

Alla fine degli anni ’40 l’economia del Paese è ancora prevalentemente centrata sul settore primario. Il censimento del 1951 rivela infatti che il 43% della popolazione è occupato nell’agricoltura e il Paese fatica ad avviare quel profondo programma di ristrutturazione industriale che vedrà la luce e muterà lo scenario occupazionale solo negli anni successivi. Così Sonnino descrive sinteticamente gli spostamenti di popolazione all’interno del Paese negli anni ’50:

La grande espansione industriale europea, sul versante internazionale, e una crescita economica e produttiva nazionale attestata nelle aree maggiormente sviluppate al Nord-Ovest e al Centro del paese, esercitano un duplice richiamo di manodopera a buon mercato che trova in Italia nel suo complesso, e al suo interno nelle aree economicamente più arretrate, la massima attenzione ed una pronta adesione. (…) L’Italia è quindi solcata, in questi anni, da una pluralità di percorsi migratori di breve, medio e lungo raggio che denotano una contemporanea molteplicità di direzioni prevalenti: dal Sud verso il Centro e il Nord-Ovest, dall’Est verso l’Ovest, dai piccoli e medi centri verso i medi, grandi e grandissimi aggregati urbani, dalla montagna verso la collina e la pianura, dal settore agricolo verso l’industria, l’artigianato, il terziario (E. Sonnino cit.  p. 535 e p. 537).

Se nell’immediato dopoguerra le migrazioni sono di brevissimo raggio, sostanzialmente da zone non raggiunte dalle infrastrutture minime verso centri abitati più grandi, e quindi prevalentemente dalle montagne verso le valli, con il passare del tempo e con il progressivo delinearsi del sistema produttivo post bellico, il raggio delle migrazioni si allunga. Meta privilegiata iniziano a diventare i Capoluoghi di provincia o i nuovi centri industriali, in sostanza le aree del Paese nelle quali in maniera più significativa prende corpo la ricostruzione sia dal punto di vista abitativo che da quello industriale.

Solo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 e con la creazione del “triangolo industriale”, Milano – Torino – Genova, avverrà la grande migrazione dal Sud al Nord del Paese.  Se, infatti, in precedenza lo sviluppo economico delle aree del Nord-Ovest era stato alimentato esclusivamente dalla forza lavoro locale e l’emigrazione dal Nord – Est e dal mezzogiorno si era diretta principalmente all’estero, man mano che prende corpo lo sviluppo delle  regioni  industrializzate si determina il progressivo definirsi di intensi spostamenti interni. Tali dinamiche danno conto dell’identica matrice che in Italia ha disegnato l’andamento dei flussi interni e di quelli internazionali: quando è cresciuta in modo significativo la capacità d’attrazione di alcune aree del Paese, allora i flussi non si sono più diretti in via quasi esclusiva verso l’estero ma sono sensibilmente aumentati i trasferimenti da una regione all’altra talvolta dello stesso comparto territoriale. Talvolta, però, una migrazione interna poteva, in presenza del fallimento del progetto migratorio originale, trasformarsi in migrazione verso l’estero.

Proviamo a dare qualche cifra: nel decennio 1955 – 1965 si osservano 25.651.000 trasferimenti di residenza, di cui oltre 17.231.000 inter-provinciali, 2.055.000 dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord e oltre 669.000 dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno, con un saldo a favore del Centro-Nord di 1.385.000 persone.

I dati statistici sulle varie tipologie della mobilità interna (intraprovinciali e interprovinciali) dimostrano la trasformazione della mobilità interna, con una componente inizialmente più importante di flussi di breve distanza, che ha portato a un forte incremento demografico nei comuni capoluoghi a detrimento dei comuni dell’hinterland. Con gli anni, tuttavia, cresce l’importanza delle migrazioni interregionali e interripartizionali (o di lunga distanza).

Negli anni ’50, inoltre, i flussi migratori dal Nord-Est verso il Nord-Ovest sono particolarmente importanti e il Nord-Est perde più di 180mila persone nel quinquennio 1955-1959. Nei quinquenni successivi, le perdite migratorie del Nord-Est diminuiscono per diventare guadagni verso la fine degli anni ’60, mentre le perdite migratorie del Mezzogiorno sono più forti negli anni 1960-64. In tutti gli anni presi in considerazione, il Nord – Ovest ha fatto registrare i saldi migratori positivi più consistenti.

Infatti, il modello di sviluppo perseguito dall’Italia a partire dalla metà degli anni ’50, caratterizzato dalla forte attrazione della forza lavoro nel settore industriale, territorialmente concentrato nel Nord – Ovest del paese, innesca un processo di urbanizzazione dai ritmi particolarmente serrati e la mobilità interna, a partire da questi anni, conosce una fase di intensità piuttosto sostenuta, che raggiunge i massimi livelli tra il 1961 e il 1963.

La metà degli anni ’60 è poi attraversata da una prima significativa crisi e segna l’inizio dell’esaurimento della “grande migrazione interna”. La crisi economica e i problemi manifestati dal sistema di produzione fordista portano, per esempio, a una significativa riduzione delle perdite migratorie del Mezzogiorno a favore del Centro-Nord, per effetto della diminuzione delle partenze e del contemporaneo aumento dei flussi di ritorno. La ripresa economica nella seconda metà degli anni ’60 porterà poi anche a una ripresa delle migrazioni interne, una ripresa che troverà la sua conclusione con la crisi economica del decennio successivo.

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