Sul Red Carpet di Roma: Palestine 36. Narrare la resistenza e scintille di libertà
Roma, Auditorium – 18 ottobre 2025.
Non so bene dove finisce il mestiere e dove comincia l’emozione. Quando sei dietro a una macchina fotografica sul red carpet, impari a diventare invisibile, un’ombra tra i riflessi, uno che sta lì solo per catturare ciò che accade. Ma quella sera, alla 20ª Festa del Cinema di Roma, qualcosa è accaduto anche a me. Il film si chiamava Palestine 36, e senza preavviso, mi ha attraversato come un vento caldo in una notte d’autunno.
Mi trovavo accovacciato, angolato, come sempre, cercando quell’asse perfetto tra luce e movimento. I colleghi al mio fianco si agitavano con i loro zoom, cercando il dettaglio scintillante, l’abito più ardito, lo sguardo complice. Ma appena ho visto il cast entrare insieme, mano nella mano, ho capito che stavolta c’era molto più di una première. Era un corteo silenzioso, un’onda compatta e fiera che avanzava sul rosso come su un sentiero sacro.
Li ho immortalati nel momento esatto in cui hanno dispiegato la bandiera palestinese. È stato come un diaframma che si apre e prende tutta la luce del mondo. La scena si è congelata in quell’abbraccio collettivo, in quegli occhi che brillavano, in quelle bocche che sorridevano con gratitudine e orgoglio. Davanti a me non c’era solo un cast, ma una testimonianza viva di appartenenza. Ho premuto il pulsante in sequenza rapida, quasi temendo che il tempo mi sfuggisse. E in quel click sentivo di stare facendo qualcosa di più che fotografia: stavo fissando una memoria, una resistenza, un’identità.
Un film che vive già nelle ombre delle sue immagini
Più tardi, quando sono rientrato in sala, ho abbassato il mio zaino e spento l’adrenalina da red carpet. Mi sono seduto come spettatore, ma con la sensibilità di chi lavora per immagini. E Palestine 36, sotto la regia intensa e lirica di Annemarie Jacir, mi ha subito risucchiato. Ambientato nella Palestina del 1936, durante la rivolta contro il Mandato britannico, il film segue Yusuf, un ragazzo di un villaggio immerso tra colline d’ulivo e tramonti color ruggine, che assiste – e subisce – il capovolgimento brutale del proprio mondo.
La sua voce narrante ci accompagna in un percorso di formazione fatto di perdite, ingiustizie e scelte. Ho riconosciuto nello sguardo del giovane attore Karim Daoud Anaya la stessa intensità che avevo colto dal vivo, sotto le luci del tappeto rosso. Accanto a lui, Hiam Abbass ha dato volto alla dignità inesausta di una madre; Kamel El Basha, invece, ha interpretato un padre la cui umanità è tanto profonda quanto tragica. E poi quegli inserti di immagini d’archivio, i frame in bianco e nero di mani che piantano semi, di occhi che non cedono – una grammatica visiva che è già fotografia.
Dietro l’obiettivo, davanti alla storia
Quando si fa questo mestiere, spesso si finisce col vedere tutto filtrato da un mirino. Ma quel giorno no. Quel giorno ho abbassato la macchina più volte, per guardare con i miei occhi nudi. Perché non capita spesso di assistere a una comunione autentica tra arte e verità.
Ero lì quando Jeremy Irons, elegantissimo nel suo completo blu notte, si è avvicinato a una signora con kefiah e le ha stretto la mano. L’ho visto sorridere, consapevole del ruolo scomodo che interpretava nel film – l’Alto Commissario britannico – ma anche del valore umano di essere parte di un progetto come questo. Saleh Bakri, magnetico come sempre, abbracciava i più giovani. Yasmine Al Massri, in un abito che richiamava l’intreccio tipico del tatreez palestinese, rideva e piangeva allo stesso tempo. Ho colto tutto questo. Ho premuto con rispetto, mai con invadenza.
La serata che cambia la pelle al fotografo
Quella sera ho capito che il red carpet non è solo una passerella, ma può essere un campo visivo fertile, dove le emozioni diventano luce e le storie si fanno gesto. E Palestine 36 ha saputo cogliere proprio questo: che la storia di un popolo non si racconta con la retorica, ma con gli sguardi, con le pause, con il rumore muto delle immagini che parlano da sole.
Il film è stato accolto da una standing ovation che sembrava non finire mai. Dopo il TIFF di Toronto, dove aveva già lasciato il segno, e dopo l’annuncio della candidatura agli Oscar 2026 come rappresentante ufficiale della Palestina, questo passaggio romano ha avuto il sapore di consacrazione. Non solo per il film, ma per il potere che il cinema ha di riaccendere coscienze.
Sono tornato a casa con la scheda piena e la mente traboccante. Non vedevo l’ora di scaricare gli scatti, ma prima ancora sentivo il bisogno di scrivere. Di raccontare. Di dire che sì, ogni tanto succede: anche un fotografo, dietro l’obiettivo, viene fotografato dentro da quello che vede.












