Nel 1991 il conflitto armato in Slovenia e Croazia ha segnato l’inizio della disgregazione definitiva della Federazione jugoslava. Un processo travagliato e doloroso che ha provocato la distruzione materiale e morale di un intero popolo causando una crisi umanitaria alla quale l’opinione pubblica di tutta Europa, in quegli anni entusiasticamente impegnata a stabilire i “pilastri” della nascente Unione europea, ha assistito sgomenta e impotente.
La guerra, infatti, è stata caratterizzata da fasi particolarmente cruente e da palesi violazioni dei diritti umani fondamentali, da quello alla vita e alla dignità della persona, alla sicurezza, oltre a quelli sociali, culturali e religiosi, come solo una “guerra civile” e fratricida può causare. Quei diritti, insomma, che l’Europa considerava sostanziali nella propria trasformazione da semplice Comunità di Stati a vera e propria Unione.
La domanda che dovremmo porci quasi trentacinque anni dopo, riguarda, da un lato, gli effetti pervasivi della devastazione della guerra nelle società dei Paesi coinvolti, dall’altro i risultati del progetto in corso per il ristabilimento dei legami politici e culturali nella regione. Occorrerebbe, insomma, ricostruire, al di là della vicenda storica che portò alla dissoluzione jugoslava, le conseguenze sul piano dei diritti umani e della ridefinizione in termini culturali, religiosi e sociali di intere popolazioni che si sono trovate a dover ridisegnare, non solo territorialmente, la propria identità.
Sarebbe anche interessante esaminare l’evoluzione della ex-Jugoslavia alla luce del ruolo svolto dall’Unione europea e dei rapporti intercorsi tra le singole neonate Repubbliche e l’Ue, analizzando, in particolare, le vicende che hanno portato all’ingresso della Slovenia, della Croazia e i rapporti più complessi con la Serbia e con altri Paesi ancora oggi in attesa del via libera per l’ingresso nell’Ue.