sabato, Maggio 4 2024

Possiamo dire che fino all’inizio del Secondo conflitto mondiale i flussi migratori furono caratterizzati, a parte rare eccezioni,  dalle migrazioni di mano d’opera poco specializzata, senza quindi particolare rilevanza delle migrazioni altamente qualificate. Occorre però anche aggiungere che i criteri per valutare lo sviluppo e la potenza di un Paese erano a quell’epoca legati alla capacità di produzione industriale e quindi proprio quelle migrazioni di bassissima qualificazione destinate all’attività mineraria, come l’estrazione del carbone, o a lavori di basso o bassissimo profilo nel sistema industriale o nell’edilizia, contribuirono allo sviluppo, secondo i parametri dell’epoca, di Paesi come l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti d’America e dell’ America latina.

L’instaurarsi in Europa di regimi autoritari alla fine degli anni ’20 cambiò la fisionomia dell’emigrazione, in particolare verso gli Stati Uniti d’America. Le persecuzioni politiche e raziali costrinsero decine di migliaia di persone a lasciare il proprio Paese. Dalla Germania nazista fuggirono verso gli Stati Uniti circa trecentomila persone, tra questi la maggior parte appartenevano alla classe media, all’alta borghesia e al ceto intellettuale. In quegli anni, però, la società americana pagava ancora il prezzo della crisi del ’29 e non riuscì a collocare tutti i “talenti” arrivati dall’Europa. Molti si dovettero adattare a svolgere lavori e mansioni molto al di sotto della loro qualifica. Discorso analogo vale per  gli intellettuali e gli artisti che non sempre trovarono in America il successo che avevano lasciato nel proprio Paese. Più fortunati furono Thomas Mann, premio Nobel per la letteratura nel 1929, costretto a fuggire in America nel 1933 per i propri contrasti con il regime nazista o Erich Maria Remarque, anch’egli fuggito in America nello stesso anno dopo il rogo da parte dei nazisti delle sue opere. Originale invece il caso di Bertolt Brecht, esule due volte per ragioni politiche: fuggito dalla Germania, sempre nel ’33 e sempre a causa del rogo delle sue opere, dopo alcuni anni tra Londra e Parigi, si stabilì in America. Interrogato nel 1947 dalla “Commissione per le attività antiamericane” con l’accusa di comunismo, fu costretto a lasciare precipitosamente gli Stati uniti d’America…..

 

Il flusso di immigrati qualificati negli anni ’30 e ’40 fece del sistema scientifico tecnologico americano  il più avanzato in assoluto al mondo continuando ad attrarre, anche nell’immediato dopoguerra e nel periodo successivo, “menti” da tutto il resto del mondo. Nel decennio successivo alla conclusione del conflitto mondiale oltre trecentomila tra scienziati, professionisti  e tecnici altamente specializzati arrivarono in America trovando lì opportunità di realizzazione che i Paesi di provenienza, ancora impegnati nella ricostruzione postbellica, non potevano offrire. D’altro canto, al di là delle scarse possibilità di molti Paesi europei di  valorizzare i propri ricercatori all’indomani della Seconda guerra mondiale, occorre anche dire che le Università e i centri di ricerca degli Stati Uniti d’America fecero una vera e propria “campagna acquisti” per garantirsi le migliori menti sul mercato, con una serie di agevolazioni economiche e fiscali  o, come nel caso dei cittadini dei  Paesi Socialisti, riconoscendo loro lo status di rifugiati politici. Il numero dei ricercatori e tecnici specializzati “sfornato” dal sistema formativo Americano rimase per lunghi anni  insufficiente al fabbisogno  del sistema produttivo  ormai avviato in un processo di profonda trasformazione tecnologica trainato anche dalla ricerca in campo militare e spaziale.

La profonda trasformazione dei sistemi di produzione, sempre più basati sull’innovazione scientifica e tecnologica, la fine della Guerra fredda e la maggior facilità di spostamento hanno fatto si che dagli anni ’90 dello scorso secolo hanno comportato un flusso sempre crescente di persone altamente qualificate in cerca o di miglior qualificazione in centri di eccellenza, o di migliori opportunità professionali o salariali per “vendere” al meglio le proprie competenze. Con l’inizio del nuovo millennio l’ingresso sulle scena mondiale di Paesi di nuova industrializzazione ha creato un nuovo flusso di migrazioni qualificate, temporanee o permanenti, verso queste aree in via di repentino, impetuoso sviluppo. Possiamo dunque dire di trovarci in presenza di un mercato globale oltre che per le merci e i servizi, anche per un numero sempre crescente di professioni altamente qualificate e l’ esperienza professionale, scientifica o tecnologica può essere  tranquillamente venduta e comprata a livello globale.

Rimane però aperta la questione del “trasferimento inverso di tecnologie” particolarmente attuale in questo lungo periodo di recessione economica. Paradossalmente ci troviamo oggi nella situazione di avere Paesi altamente industrializzati e con ampia possibilità di utilizzo e valorizzazione di ricercatori e tecnici altamente specializzati, come ad esempio gli Stati uniti d’America, che non riescono però, a causa di mancanza di studenti nelle materie scientifiche, del calo demografico ecc., a soddisfare la domanda interna di queste figure, vedendosi costretti quindi ad attirarle da altri Paesi. Abbiamo poi il caso di Paesi che hanno compiuto un grande sforzo per dotarsi si sistemi formativi in grado di formare personale estremamente specializzato che non hanno però le condizioni economiche e il sistema produttivo in grado di valorizzarle. Paradossalmente quindi abbiamo paesi economicamente più deboli che finanziano la formazione di specialisti che andranno a produrre ricchezza  e sviluppo altrove. Oltre a Paesi dell’Asia e dell’America Latina si trova in questa paradossale condizione anche l’Italia dotata, da un lato da un sistema d’istruzione che riesce in molti campi a fornire dei percorsi di vera e propria eccellenza, dall’altro afflitta da un immobilismo ormai cronico che ha  paralizzato il sistema produttivo e della ricerca scientifica,  condannando le nuove generazioni ad un esodo forzato in altri Paesi.

In epoca di commercio globale, anche dei talenti, è quasi fisiologico che una parte del proprio percorso di studi o professionale si compia in un altro Paese per ”comprare” o “vendere” conoscenza. Cosa diversa è quando un Paese non è in grado di valorizzare le eccellenze e le professionalità che forma, ma questa, probabilmente è la sfida del futuro.

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