sabato, Dicembre 14 2024

L’integrazione negata

Benedetto Coccia

Una riflessione seria sul tema dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati nel nostro Paese, soprattutto nel nostro tessuto sociale, richiede preliminarmente un grosso sforzo di onestà intellettuale.

Richiede, cioè, una risposta sincera e onesta a una domanda apparentemente semplice: siamo disposti ad accogliere a pieno titolo nel nostro Paese, nella nostra società, nella nostra quotidianità, nella nostra vita, persone diverse da noi per lingua, tradizioni culturali, credo religioso? Siamo, cioè, disposti ad abrogare definitivamente l’uso di quel noi e loro che fino ad ora ci ha distinti e separati?

Questi sono i quesiti ai quali occorrerebbe dare una risposta chiara e inequivoca prima di addentrarci in considerazioni di natura giuridica, economica, sociale, nelle pieghe delle quali facilmente si possono annidare obiezioni e distinguo, segnali, talvolta dissimulati, talvolta espliciti, se non addirittura orgogliosamente rivendicati, del rifiuto dell’Altro in quanto tale.

 

Moglie e buoi dei paesi tuoi

I proverbi, i modi di dire ci trasmettono, in genere attraverso la tradizione orale, quella saggezza popolare che ha rappresentato per secoli il senso comune ovvero il buon senso della cultura popolare.

Una cultura prevalentemente rurale, la nostra, dato che l’Italia è sempre stata un Paese a prevalente vocazione agricola fino a quando, intorno alla metà del secolo scorso, si è data una posa da Paese altamente industrializzato. E proprio alla più antica tradizione rurale dobbiamo il detto “moglie e buoi dei paesi tuoi” nel quale l’una e gli altri rappresentano una fondamentale scelta di “futuro”: la moglie ovvero la con la quale si decideva di condividere tutta la vita (allora così si usava…) e con la quale si intendeva generare la progenie, il futuro appunto; i buoi, perché l’acquisto di un tiro di buoi in una economia prevalentemente di sussistenza, quale era quella delle campagne italiane, rappresentava un investimento di una certa importanza che sarebbe dovuto durare il più a lungo possibile. Davanti a scelte di questa portata, che avrebbero determinato il futuro di un nucleo familiare, non si poteva rischiare o fare errori, occorreva andare sul sicuro e dunque cosa poteva esserci di meglio che ricorrere ai “prodotti” (con tutto il rispetto per le donne) della propria terra? Oggi, in era di ecosostenibilità, si direbbe una scelta “a chilometri zero”. Come sposare una donna della quale non conosco i genitori, la famiglia, la storia e che addirittura parla una lingua (dialetto) diversa dalla mia? Come acquistare qualcosa che proviene da una terra che non conosco? Ed ecco ricomparire quel concetto di noi tanto rassicurante, racchiuso nella confortante cerchia di persone e in un territorio che si conosce e si sente proprio. Naturalmente, allora, del proprio paese non indicava della propria Nazione, ma della propria comunità, quella che si ritrovava all’ombra dello stesso campanile, quella che parlava lo stesso dialetto; la sola idea di poter sposare una persona di un Paese straniero non era proprio all’ordine del giorno. E dunque quel noi era molto stringente, si riferiva al proprio paesino, alla propria cittadina, facendo, di fatto, del povero bue della valle accanto, uno straniero.

La forte accelerazione impressa alla società italiana dal rapido processo di industrializzazione nella metà del secolo scorso e la consistente migrazione interna che questo ha determinato hanno, in parte, sprovincializzato la popolazione e, non senza fatica, la consapevolezza che le persone della valle accanto, tutto sommato, non fossero così tanto diverse da noi ha iniziato a farsi strada. Tuttavia la comprensibile diffidenza verso ciò che non si conosce, verso ciò che è ignoto può talvolta trasformarsi in ostilità o vero e proprio rifiuto. È quanto abbiamo visto accadere in questi ultimi anni nel nostro Paese nei confronti dei migranti. L’Italia, in quanto Paese povero, è stato da sempre caratterizzato, in particolare in alcune fasi, anche recenti, della propria storia, da importanti fenomeni di migrazione sia esterna che interna. Dalla fine degli anni ’70 fino all’inizio degli anni ’90, più discretamente, mentre in seguito in maniera più dirompente, l’Italia è diventata Paese d’immigrazione, rivelandosi del tutto impreparata all’accoglienza e all’integrazione dell’“altro”. Ecco allora, più prepotentemente in questo ultimo decennio, riemergere le rivendicazioni identitarie, di difesa di una presunta identità nazionale minacciata dai nuovi arrivati tanto diversi da noi. Sul concetto di identità nazionale ci sarebbe molto da dire ed in particolare sull’identità nazionale italiana, ma certo non in queste poche pagine. Possiamo però affermare con certezza che poche identità nazionali, data anche la giovane età della nostra nazione, sono il frutto dell’incontro di culture, tradizioni, lingue e religioni diverse come quella italiana e possiamo con altrettanta certezza affermare che la ricchezza e la bellezza della tradizione culturale del nostro Paese si devono proprio all’essere stata, e ad essere tuttora, l’Italia, geograficamente e culturalmente protesa nel Mediterraneo, terra di passaggio, d’incontro, di arricchimento e scambio reciproco tra culture, religioni e civiltà diverse. Purtroppo questo dato, rilevabile anche solo visivamente, osservando con uno sguardo non eccessivamente attento l’architettura delle nostre città,  non è chiaro a tutti, dato che, ancora oggi,  leggiamo in una brutta pubblicazione, malauguratamente ed erroneamente attribuita alla mia cura editoriale, che “è con la sedentarietà […] non con le migrazioni, che appaiono formarsi e crescere tutte le civiltà.”

Molto opportuna, a questo riguardo, ci sembra piuttosto la riflessione di Luigi Ferrajoli: “Si capisce perciò che se prevarranno le attuali politiche di esclusione, non certo in grado di limitare il fenomeno [migratorio] ma solo di clandestinizzarlo e drammatizzarlo, l’Occidente rischia il crollo della sua identità. L’Europa, in particolare, non sarà più l’Europa civile dei diritti, della solidarietà, dello Stato sociale inclusivo, delle garanzie dell’uguaglianza e della dignità delle persone, bensì l’Europa dei muri, dei fili spinati, delle diseguaglianze per nascita e dei conflitti razziali”.

Noi vs gli altri. Questo il binomio che sembra ormai dominare il dibattito sull’immigrazione, gli interessi della nostra comunità minacciati, socialmente, culturalmente, economicamente dalle orde di stranieri che ci stanno invadendo. Non è così, ma questa è la percezione che la maggioranza degli italiani ha e questo è il messaggio che politici e mass media diffondono a piene mani nel dibattito politico e nella sottocultura dei salotti televisivi. Non è questa la sede e non è lo scopo di queste poche pagine dimostrare quanto questi timori siano infondati. Esiste, fortunatamente, al riguardo, una copiosa e qualificata letteratura. 

 

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