Abbiamo visto che la comparsa degli zingari in Italia, databile nella seconda decade del 1400, fu inizialmente accolta benevolmente dalla popolazione e dalle stesse autorità, sia civile che ecclesiastiche.
Questo fu dovuto sia al fatto che questi nascosero il loro nomadismo sottolineando viceversa le proprie origini sedentarie e la natura accidentale ed espiativa del loro vagabondare, certi così di accattivarsi la simpatia e l’accoglienza benevola delle popolazioni che incontravano lungo il loro cammino, sia per il permanere nella cultura del tempo di quella naturale attitudine, di impronta medioevale, all’accoglienza caritatevole del povero e dell’emarginato Certo, come abbiamo visto, alla lunga, questo approfittarsi dell’ingenuità, mista spesso a ignoranza, della popolazione per carpire la sua benevolenza, irritò non poco i ceti dirigenti facendo mutare quella naturale attitudine all’accoglienza caritatevole del povero e in un atteggiamento più vigile e sospettoso nei confronti di queste popolazioni nomadi. D’altro canto, come abbiamo già sottolineato, la stessa cultura medioevale distingueva tra poveri veri e poveri falsi per cui, mentre sopravviveva nella cultura dell’epoca l’etica cristiana dell’elemosina, del dare ai poveri, del sovvenire ai bisogni divenuta comandamento morale, strumento di redenzione, tecnica di salvezza dell’anima, viceversa la stessa cultura metteva in guardia dall’arte dei “capziosi raggiri di poltronieri errabondi e coreografie religiose e sacerdotali per sorprendere l’ingenua religiosità popolare” condannandola senza appello come “colossale impianto a delinquere”. Finché nel 1552 Girolamo De Rossi, Governatore di Roma in nome di Papa Giulio III, emanò un bando in cui il nesso tra zingari e delinquenza veniva per la prima volta esplicitato. Ma toccherà a Papa Pio V, per mano del suo Camerlengo, il Cardinale Vitello Vitelli, emanare nel 1566 un bando con il quale si estendeva a tutto lo Stato della Chiesa il già esistente divieto d’ingresso e di soggiorno nella città di Roma, ma, soprattutto, si attribuivano alla violazione di tale ordine pene durissime da comminare “irremissibilmente” quali la pena della frusta, la prima volta, e in caso di renitenza all’espulsione “la pena della forca”.