sabato, Dicembre 14 2024

Vorrei soffermarmi sull’aspetto che in qualche modo può costituire un parallelismo con quanto accaduto in Italia, riguarda il problema demografico conseguente alla emigrazione di una fetta così consistente e significativa della popolazione romena. La Romania, come il resto d’Europa, sta attraversando quello che Michel Schooyans ha efficacemente definito “un inverno demografico” e questo per una serie di fattori sociali, economici e culturali che accomunano l’intero occidente e sui quali da anni la comunità scientifica sta riflettendo[4]. Inoltre è evidente che l’emigrazione di massa, prevalentemente giovanile, che da anni caratterizza la popolazione romena, non fa altro che accelerare e amplificare le inevitabili conseguenze che il calo demografico e il conseguente invecchiamento della popolazione porta con sé. Il crollo del regime comunista ha determinato anche il crollo di un sistema economico accentrato e pianificato, chiamato a confrontarsi, dopo la caduta del Muro di Berlino, con il libero mercato e con il sistema capitalistico. In pochi anni l’intero sistema produttivo romeno, sia industriale che agricolo, sembra imploso su se stesso anche a causa di politiche economiche sbagliate e non sempre trasparenti. A poco sono serviti i copiosi finanziamenti europei dei quali la Romania ha usufruito. Dal 2007, con il suo ingresso nell’Unione Europea, la Romania ha avuto accesso ai Fondi Strutturali messi a disposizione dall’Unione per attuare la propria Politica di Coesione economica e sociale, al fine di ridurre le forti disparità economiche esistenti tra le regioni. Tra il 2007 e il 2013 sono stati destinati alla Romania 19,21 mld. di Euro e nella programmazione 2014 – 2020 le risorse disponibili per il Paese ammontano a circa 43 mld. di Euro, divisi come segue: 22,9 mld. di Euro per la Politica di Coesione, 19,7 mld. di Euro per la Politica Agricola, 0,17 mld. di Euro per il Fondo Europeo per la Pesca e per gli Affari Marittimi, e 0,44 mld di Euro per il Fondo Europeo per le Persone Svantaggiate. Indubbiamente finanziamenti consistenti, che non sembrano però aver sortito un cambiamento significativo nel sistema economico – produttivo del Paese. La crisi pandemica ha naturalmente peggiorato la situazione, colpendo, in qualche modo, la Romania due volte: da un lato, arrecando al suo sistema economico gli stessi danni che ha causato a tutte le economie del mondo, dall’altro, provocando il rientro in patria di molti romeni della diaspora che hanno perso il lavoro in altri Paesi europei (nel 2020 sono stimati in 1 milione e 300 mila i romeni tornati in patria a causa della pandemia)[5]. Come per il resto dell’Europa, occorrerà attendere i prossimi mesi per comprendere come le singole economie sapranno reagire a questa crisi globale, anche alla luce dei copiosi fondi messi a disposizione dall’Unione per fronteggiare l’emergenza sanitaria, economica e sociale che ha travolto tutto il Continente.  Ma, tornando al parallelismo con il nostro Paese, anche l’Italia, al termine della seconda guerra mondiale, ha goduto di importanti finanziamenti, allora provenienti dagli Stati Uniti d’America; questo le ha consentito di avviare quel programma di riforme del sistema industriale ed economico che ha portato, negli anni sessanta, a quello che fu chiamato “il boom economico”, arrestando per alcuni decenni il fenomeno dell’emigrazione. Come pure ha ottenuto, nel corso degli anni, cospicui finanziamenti da parte dell’Unione Europea, ma, nonostante tutto, il “sistema Paese” appare bloccato, quasi paralizzato da una crisi economica e “strutturale” che non sembra aprire alcuna prospettiva di futuro per le nuove generazioni. Da qui la ripresa dell’emigrazione italiana che ha portato tra il 2008 e il 2017 circa un milione e seicentomila giovani, di cui cinquecentomila laureati, a lasciare il Paese[6]. A questo occorre aggiungere la profonda crisi demografica che affligge il nostro Paese da decenni, collocandolo all’ultimo posto in Europa per nascite e rendendolo tra i Paesi più “vecchi” al mondo. Ma le considerazioni fin qui svolte si riferiscono al periodo pre-pandemia; è di tutta evidenza che l’epidemia di COVID 19 da emergenza sanitaria si è ben presto trasformata in emergenza sociale ed economica, mostrando tutta la fragilità del costrutto sociale ed economico fin qui costruito e costringendo l’intera umanità a rivedere l’ordine delle proprie priorità. Infatti, le necessarie misure di contenimento della diffusione del virus hanno cambiato gli stili di vita e i modelli di produzione, hanno pesantemente contratto l’attività di alcuni settori produttivi e fatto aumentare esponenzialmente quella di altri, oltre ad aver accelerato il processo di finanziarizzazione dell’economia a discapito di quella reale. Le effettive conseguenze economiche e sociali di questa crisi saranno chiare solo quando, terminata l’emergenza sanitaria, della quale peraltro ancora non conosciamo il termine temporale, verranno meno gli strumenti di sostegno alla disoccupazione attualmente in essere. A oggi, vigente il blocco dei licenziamenti, quasi cinquecento mila persone hanno perso il posto di lavoro nel nostro Paese e a Roma, al termine della “prima ondata”, fonti Caritas rivelavano che l’accesso alle strutture di sostegno alla povertà presenti sul territorio avevano aumentato la propria utenza del 700%.

Tutto questo, se da un lato imporrà un ripensamento radicale di un sistema produttivo ed economico scosso alle fondamenta da questa crisi, dall’altro rappresenta una eccezionale opportunità per immaginare e ridisegnare, oltre all’impianto produttivo, anche l’intera architettura delle nostre società. Ma occorre che il tessuto sociale sia in grado di recepire questi necessari e annunciati cambiamenti. E dunque va aggiunto un ulteriore elemento al nostro ragionamento: considerare la sola numerosità di una popolazione non aiuta ad avere una visione chiara sul suo sviluppo futuro, anche alla luce delle profonde trasformazioni che attendono le nostre società.

[4] Per una analisi più approfondita riguardo al calo demografico in Italia e alle sue conseguenze per la vita presente e futura del Paese cfr. Benedetto Coccia (a cura di) Niente figli siamo italiani. Un Paese con sempre meno bambini e un futuro sempre più incerto. Roma, Apes 2015.

[5] Cfr. How the pandemic reversed old migration patterns in Europe. Many Eastern Europeans have left the west and gone home.  Economist.com 30 gennaio 2021.

[6] Dati Istat-Idos in: Benedetto Coccia, Antonio Ricci (a cura di) L’Europa dei talenti (cit.).

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