lunedì, Aprile 29 2024

La politica cattiva, la cattiva politica e l’effetto specchio

“Per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Così nel febbraio del 2009 si esprimeva l’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, manifestando una dichiarazione d’intenti che avrebbe preso forma giuridica con la legge 94 del luglio 2009. Così Ferrajoli la commenta: “Con questa legge – sicuramente la più indegna della storia della Repubblica – per la prima volta dopo le leggi razziali del 1938 è stato penalizzato, con l’introduzione del reato di immigrazione, non un fatto ma uno status, quello appunto di immigrato clandestino, in violazione di tutti i principi basilari dello Stato di diritto in materia penale”[1]. In buona sostanza viene sancito il concetto di “persona illegale” e a questo punto viene spontaneo domandarsi quale sarà la prossima categoria di persone dichiarata illegale per legge. Senza entrare nel merito delle discussioni sulla costituzionalità di questa legge e sulla gravità del principio affermato nel suo testo circa la criminalizzazione delle persone, non già per quello che fanno, per le loro azioni, ma per ciò che sono, per la condizione che vivono, per la loro identità, possiamo dire che è una legge cattiva, come aveva promesso il Ministro Maroni, e anche che è una cattiva legge, figlia di una cattiva politica. Una politica che, più che ispirarsi agli alti valori costituzionali che reggono la nostra Repubblica, guarda piuttosto agli istinti più bassi della popolazione (degli elettori) e, per una insaziabile sete di consenso e in nome di un mal inteso concetto di rappresentanza, li codificano e li rendono legge dello Stato.

Ecco allora che si crea quella che potremmo definire una “politica specchio” nella quale, “per l’interazione che sempre sussiste tra diritto e senso comune”[2], il legislatore, a tutti i livelli,  legittima attraverso le leggi (o anche i decreti amministrativi o le semplici circolari ministeriali) i più bassi istinti della popolazione, la quale, a sua volta, vedendoli codificati e divenuti legge, si sente rassicurata rispetto a quei sentimenti fino a quel momento ritenuti inconfessabili e alza la posta, certa che, ancora una volta, la politica saprà rispecchiare la volontà popolare. Condannare l’immigrato a una inferiorità giuridica, alla colpa di esistere, ha significato condannarlo tout court a una inferiorità naturale, a una diversità colpevole che non lo rende degno dei nostri stessi diritti. Questo processo che, a volte carsicamente, a volte alla luce del sole si è fatto strada nella cultura e nella coscienza della popolazione italiana, ha portato a parlare esplicitamente dell’immigrazione, non più come fenomeno ma come problema; a valutare il tema dell’accoglienza in termini di esclusiva utilità degli immigrati  come forza lavoro (come fossero ombrelli che, quando piove si usano e quando smette si ripongono o, oggi con quelli usa e getta, si buttano) e ad ascoltare con una certa assuefatta indifferenza le notizie riguardanti le tragedie nel Mediterraneo dei barconi della speranza. Tutto questo è solo cattiva politica?

 

[1] Luigi Ferrajoli, Op. cit. p.21

[2] Luigi Ferrajoli, Op. cit. p. 19.

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