venerdì, Aprile 26 2024

Al di là delle diverse articolazioni dell’esodo rurale, comunque, per coloro che decidevano di abbandonare il mondo delle campagne o i piccoli centri, le città rappresentavano una promessa di migliori condizioni di vita, una preziosa occasione di promozione sociale e in ultima istanza una porta di accesso all’ambita modernità della nascente società del benessere.

Nel loro percorso di inserimento nelle realtà urbane di destinazione, però, gli immigrati incontrarono più di qualche ostacolo e non di rado notevoli difficoltà. Dal punto di vista lavorativo, l’agognato “posto” stabile in una fabbrica o un ufficio fu per molti l’approdo finale di un lungo percorso le cui tappe intermedie erano rappresentate da occupazioni saltuarie, irregolari o mal pagate nei più diversi settori, con l’edilizia e le piccole officine spesso in primo piano almeno per gli immigrati a basso reddito. Come evidenziato da Franco Ramella in un saggio in cui sono messe a confronto le diverse traiettorie professionali seguite a Torino da immigrati meridionali e piemontesi, i percorsi di inserimento e mobilità nel mondo del lavoro erano fortemente influenzati dalle reti sociali, cioè dalle relazioni personali di cui disponevano gli immigrati. Tali reti, che comprendevano sia coloro che l’immigrato conosceva già prima di trasferirsi in città, sia coloro con i quali entrava in contatto sul luogo di lavoro o di residenza, svolgevano infatti un ruolo cruciale nella circolazione delle informazioni relative alla domanda di lavoro nei vari settori occupazionali dell’area urbana. Potendo contare su reti di conoscenze di estrazione sociale tendenzialmente bassa e provenienza geografica per lo più meridionale, dunque, gli immigrati dal Mezzogiorno accedevano di norma a lavori meno qualificati e peggio retribuiti rispetto agli immigrati piemontesi, le cui conoscenze, che tendevano ad avere un profilo sociale più elevato e ad essersi integrate da più tempo nel contesto urbano torinese, agevolavano loro il conseguimento di posizioni professionali di livello superiore.

Non minori problemi, come abbiamo già sottolineato, gli immigrati potevano incontrare sotto il profilo abitativo. Le maggiori città italiane non erano evidentemente in grado di fronteggiare gli straordinari flussi migratori che si andavano riversando su di esse, e gli immigrati si trovarono spesso a doversi adattare a soluzioni abitative di fortuna o comunque inferiori ai più elementari standard in termini di qualità dell’ambiente domestico e dotazione di servizi. Non aggiungiamo altro sulle diverse forme residenziali sperimentate dagli immigrati di estrazione popolare – dalle “coree” dell’hinterland milanese agli scantinati e alle soffitte degli edifici degradati del centro di Torino, dalle più o meno abusive borgate romane fino ai “palazzoni” disseminati nelle periferie di queste e altre città – poiché ci siamo già soffermati su questo aspetto.

Merita invece concentrarsi su alcuni aspetti latu sensu culturali dell’esperienza migratoria di coloro che si trasferirono nelle città. In primis, va sottolineato che, nonostante le summenzionate difficoltà, gli inurbati furono protagonisti di primo piano di quella rivoluzione dei consumi che, a partire dagli anni del “miracolo economico”, cambiò in profondità i comportamenti, la mentalità e gli stili di vita degli italiani. A un forte incremento dei consumi (quelli privati pro capite raddoppiarono, ad esempio, tra il 1956 e il 1970), si affiancò infatti un vero e proprio stravolgimento nella loro composizione percentuale. Tra i consumi di base, abitazione e vestiario rimasero sostanzialmente stabili, mentre calò nettamente la quota di reddito destinata all’alimentazione, al cui interno inoltre i cibi “poveri” come legumi secchi, carne ovina e caprina, lardo e strutto venivano affiancati o sostituiti da alimenti “ricchi” come carne bovina, burro, olio e caffè. Inoltre, gli italiani trasferirono progressivamente quote di reddito tradizionalmente riservate al settore alimentare verso gli “altri” consumi, dalla motorizzazione privata all’arredamento, dai beni durevoli come gli elettrodomestici ai prodotti per la cura del corpo e la bellezza.

Nel contesto di questo generale progresso dei consumi – che coinvolse le diverse zone del Paese e i vari gruppi sociali in maniera differenziata, con le regioni settentrionali ed i ceti medi e superiori che per molti aspetti “anticiparono” le regioni meridionali e le classi popolari – alcuni beni, come l’automobile e la casa di proprietà, assursero al ruolo di veri e propri simboli della modernità urbana. Secondo Emanuela Scarpellini, è proprio attraverso l’accesso a questi nuovi consumi che gli immigrati ricercavano “un’integrazione nella società moderna […]. I nuovi beni comunicano nuovi valori: la televisione è il simbolo dell’uscita da una comunità ristretta e chiusa; la macchina o la moto testimoniano l’autonomia, la mobilità spaziale e sociale; la stessa casa – non quella grande, vecchia, polverosa, ereditata al paese e condivisa con altri nuclei parentali – ma il piccolo e nuovo appartamento, anche modesto, è il luogo dove creare una nuova domesticità per la famiglia nucleare, un’intimità prima sconosciuta, una nuova gerarchia di spazi. È una forma di integrazione individuale, al di fuori delle organizzazioni sociali. Nelle caotiche realtà urbane del miracolo economico i beni materiali rappresentano la negazione di un passato di miseria e la realizzazione del sogno italiano” (E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Bella Epoque al nuovo millennio. Laterza, Bari – Roma 2008. p. 151).

Su un piano più generale, il nuovo ambiente urbano implicò profondi mutamenti nella vita quotidiana degli immigrati. In relazione alle città industriali del Nord, ad esempio, Paul Ginsborg ha messo in evidenza l’inedita condizione di isolamento cui le famiglie di origine meridionale si trovarono di fronte. Per esse, infatti, “la mancanza di festività collettive, della piazza come luogo d’incontro, di rapporti intrafamiliari, costituì un cambiamento profondo rispetto al passato. Questa privatizzazione in unità familiari più piccole sembra aver avuto aspetti sia positivi sia negativi: da una parte (…) le famiglie erano contente di fuggire dall’intrusione dei vicini e dalla soffocante atmosfera delle corti rurali. La privacy offerta dalle strutture urbane settentrionali si presentava così come una vera liberazione. D’altra parte ogni nucleo familiare tendeva a rinchiudersi in se stesso, ed era meno aperto a una vita comunitaria o a forme di solidarietà intrafamiliare” (P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943 – 1988, cit. p. 330).

 

Anche a livello individuale, poi, soprattutto per i giovani e le donne, la dimensione urbana determinò un deciso allargamento dei margini di libertà ed autonomia di cui potevano godere nei confronti della cerchia familiare e dei conoscenti. Nelle grandi città, infatti, le tradizionali forme di controllo sociale andavano perdendo di rilevanza, mentre si sviluppavano nuove forme di impiego del tempo libero e diverse e più informali modalità relazionali tra i singoli e tra i diversi gruppi sociali.

Nel complesso, comunque, l’inserimento degli immigrati nelle città non seguì i binari di un semplice ed unidirezionale adattamento ai valori e agli stili di vita urbani. Secondo Amalia Signorelli, infatti, questi ultimi non “soprascrissero” le culture tradizionali degli immigrati ma vi si intrecciarono in un legame sincretico dando vita a nuovi ed originali sistemi di valore e modelli di comportamento. In quest’ottica, la modernizzazione ed unificazione socio-culturale del Paese cui le migrazioni interne contribuirono in maniera significativa non può essere considerata come “un processo lineare, totalizzante e senza residui”, ma va letta nei termini di “una gigantesca fusione di vecchio e di nuovo, di una riplasmazione reciproca del retaggio tradizionale ad opera delle esigenze di modernizzazione e, viceversa, di riplasmazione degli imperativi della modernizzazione ad opera delle strutture e sovrastrutture tradizionali, più di quanto non sia stato un processo di radicale sostituzione delle vecchie strutture economiche, sociali e culturali con le nuove” (A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in, Storia dell’Italia Repubblicana, cit. p. 590)

Un ultimo punto da considerare, infine, riguarda le trasformazioni vissute dalle città investite dai flussi immigratori, trasformazioni che contribuiscono anche a dar conto dell’inversione di tendenza nel processo di urbanizzazione registratasi nell’ultima fase del periodo preso in esame. Le città che nei decenni Cinquanta e Sessanta conobbero uno straordinario aumento di popolazione, infatti, vissero nel contempo intensi processi di espansione urbana che videro il tessuto edificato estendersi attraverso la nascita o l’accrescimento di un’infinità di quartieri residenziali, zone industriali o commerciali, centri direzionali, e così via. Nella grande maggioranza dei casi, però, i tempi e le modalità dello sviluppo urbano furono in sostanza demandati al libero gioco di grandi e piccoli interessi privati, al di fuori di un’efficace pianificazione e gestione da parte dei poteri pubblici. Il risultato fu che le città crebbero su se stesse in maniera tanto rapida quanto spontanea e caotica, soffrendo in varia misura per l’inadeguatezza delle infrastrutture, dei servizi pubblici e dei sistemi di trasporto urbano, come anche per la carenza di alloggi a buon mercato accessibili alle fasce di popolazione a più basso reddito.

Come visto sopra, negli anni Settanta si verificò invece un forte rallentamento nella crescita o addirittura una flessione demografica di molti tra i maggiori centri urbani italiani. Torino e Milano, ad esempio, tra il 1971 e il 1981 persero rispettivamente oltre 50.000 e quasi 130.000 abitanti, mentre il decremento di Napoli fu più contenuto, superando di poco le 14.000 unità. Analogamente, persero popolazione città come Genova, Venezia, Bologna e Firenze, mentre in casi come Roma e Bari si ebbe un forte rallentamento della crescita che preludeva a un successivo calo negli anni Ottanta. Parallelamente, andavano crescendo i centri minori dei rispettivi hinterland, con il risultato che la popolazione di molte aree metropolitane continuava ad aumentare nonostante il calo di quella del centro urbano principale. Quello che si andava verificando era dunque un movimento di «deconcentrazione territoriale»  dovuto a una serie di fattori, tra i quali l’inadeguatezza degli ambienti urbani e la ricerca di sistemazioni più economiche e di migliori condizioni di vita nell’hinterland giocavano un ruolo di primo piano, accanto ad altri come il processo di redistribuzione geografica delle attività economiche e dei posti di lavoro e l’estensione della rete di infrastrutture fisiche e sociali oltre i confini dei maggiori poli urbani.

L’afflusso di immigrati verso le maggiori città italiane rallentava insomma sensibilmente e anche una porzione non trascurabile dei loro abitanti iniziava ad abbandonarle alla volta dei Comuni di minori dimensioni, ma questo attiene ad una fase successiva della vita sociale ed economica del Paese.

 

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