L’inadeguatezza complessiva della classe dirigente appare sempre più come il problema del nostro Paese che, per strane coincidenze storiche, non si rivela secondo a nessuno quanto a primigenie riflessioni di scienza politica come pure a inedite soluzioni di crisi epocali. Il laboratorio politico Italia, infatti, se versa in un apparentemente irreversibile declino dal punto di vista delle sue élite, rimane pur tuttavia al centro dell’attenzione degli studiosi delle discipline politiche perché da sempre rilevatore di alcune tendenze o derive che spesso si rigenerano successivamente in altri Paesi.
Sarebbe però ingiusto attribuire alla sola stirpe italica l’origine della crisi in cui versa, atteso che storici, sociologi e politologi di tutto il mondo parlano di un vento postdemocratico che sta attraversando i Paesi occidentali più progrediti, all’interno di un più vasto e duraturo “effetto serra” politico che si chiama globalizzazione. Gli “imputabili” di questa crisi delle élite non vanno dunque trovati nominalmente, seppure fosse possibile, ma dentro una visione più ampia dove ciò che conta è trovare la rete o il flusso di interessi che spingono verso questa deriva che potremmo definire “deresponsabilizzante”. Ecco perché, a nostro avviso, sarebbe urgente svolgere una riflessione sui luoghi dove avvenivano e avvengono la formazione e la selezione delle classi dirigenti, ovvero le vecchie sedi di partito ma anche le “popolari” primarie, i pensatoi (i cosiddetti think-tank), le lobbies e, perché no, la rete. In presenza cioè di un mutamento del campo di decisione e di contesa politica – e dello spaesamento che ne consegue -, occorrerebbe osservare con attenzione quei luoghi di passaggio che nel frattempo stanno cambiando, se non perdendo del tutto, i connotati storici, politici e culturali tradizionali che nel passato li avevano contraddistinti. Questo fenomeno è stato analizzato con rigore scientifico per primo dall’antropologo Marc Augé per il quale ha coniato il neologismo “nonluogo”.