Nelle deliberazioni del Concilio Provinciale di Ravenna del 1568, voluto da papa Pio V, nelle quali, nella parte relativa agli zingari, si legge che la sanzione dell’esilio sarà comminata se gli zingari: “Non vivranno cristianamente”. Con tale pronunciamento inizia la terza fase dell’epoca moderna: quella dell’assimilazione forzata. Questa nuova linea di condotta, che tendeva a integrare gli zingari nella comunità cristiana, trovò definitiva e organica codificazione nell’editto emanato nel 1631 dal Cardinale Francesco Barberini, Soprintendente dello Stato della Chiesa di Urbano VIII, dal titolo Sopra la reduttione de’ zingari e zingare al bene vivere. Per bene vivere si intendeva lo spogliarsi di tutti gli usi e costumi della vita nomade, cancellando la propria identità al fine di integrarsi pienamente nella società.
Questa impostazione tendente all’assimilazione forzata guiderà l’azione della Chiesa per tutto il Seicento. Il Settecento vede la nascita degli studi sulle popolazioni zingare e divenuti nell’Ottocento “zingarologia” o “ziganologia”. D’altro canto la nascente etnologia – inizialmente definita “storia dei progressi dei popoli verso la civiltà” e poi, verso la metà dell’Ottocento, al momento della nascita della Societé ethnologique, definita “studio delle razze umane in base alle lingue e ai caratteri fisici e morali di ciascun popolo” – non poteva rimanere indifferente difronte ai mille interrogativi e ai tanti aspetti ancora ignoti, a partire dalle origini e dalla stessa lingua, caratteristici di queste popolazioni. E proprio a partire dallo studio della lingua, alla metà del Settecento, si stabilì l’origine indiana e non egiziana, come gli stessi zingari avevano lasciato intendere, di queste popolazioni. L’approccio illuministico, caratteristico di quegli anni, diede luogo a numerosi studi, stranieri ma anche italiani, sulle origini, l’idioma, gli usi e i costumi delle popolazioni zingare, iniziando a distinguerle a secondo della lingua che parlavano o delle terre di provenienza.