mercoledì, Maggio 1 2024

Gli intensi movimenti migratori degli anni Cinquanta e Sessanta, che riversarono nelle città un imponente flusso di popolazione proveniente dalle campagne, soprattutto dalle regioni meridionali, segnarono il tramonto dell’Italia contadina. Nel 1958 si spostarono dal Sud al Nord 85.175 persone, che divennero 79.829 nel 1959 e tornarono ad aumentare costantemente negli anni successivi. Le migrazioni coinvolsero in ogni caso, tra partenze e arrivi, tutte le regioni, trasformando radicalmente la distribuzione geografica della popolazione italiana.

Le principali destinazioni degli spostamenti furono Roma e le grandi città industriali, la cui conformazione urbanistica e sociale fu definitivamente mutata. Gli immigrati contribuirono all’imponente espansione urbana delle principali città italiane, che avvenne il più delle volte al di fuori di ogni pianificazione urbanistica, guidata dagli interessi dei costruttori e dei proprietari delle aree edificabili. Il paesaggio urbano degli anni Sessanta appariva infatti dominato dalle immense periferie, in cui accanto ai grandi complessi immobiliari convivevano nuclei di baracche, come le “coree” milanesi e i “borghetti” romani, dove i nuovi abitanti costruirono il loro difficile percorso di integrazione e iniziazione ai riti della modernità. Oltre alle prospettive di miglioramento delle condizioni economiche, la spinta al trasferimento nelle città, come accennavamo, proveniva in buona parte anche dal desiderio di emanciparsi dalla propria condizione di isolamento culturale e sociale. In particolare per i giovani, che costituirono la parte maggioritaria dei flussi migratori, la varietà di esperienze e possibilità offerte dalla vita metropolitana costituiva un’attrazione irresistibile, rappresentando nell’immaginario collettivo la scoperta di un mondo sconosciuto dove poter accedere, nonostante le mille insidie e difficoltà, ad una fetta del benessere promesso dal nascente miracolo economico. Come vedremo in seguito, in realtà, molte di queste aspettative vennero drammaticamente smentite dai fatti.

Un’inchiesta condotta da Espresso nel corso del 1955 mostrò il candido stupore di giovani meridionali che, giunti a Roma in cerca di fortuna, ignoravano che in una città moderna ci fosse “gente che poteva bere cinque caffè al giorno e che si cambiava la camicia ogni mattina”.

Il flusso migratorio costituì una massiccia riserva di manodopera a buon mercato per l’industria nazionale, la cui crescita di produttività consentì di raggiungere nei primi anni Sessanta un livello vicino alla piena occupazione. Nel 1962 la percentuale di disoccupazione scese infatti al minimo storico del 3% tanto da far affermare a Pasquale Saraceno, allora presidente dello Svimez, che l’Italia si stava avviando “verso la piena occupazione” (P. Saraceno, L’Italia verso la piena occupazione. Feltrinelli, Milano 1963).

La nascita e lo sviluppo incontrollato di enormi quartieri popolari nelle periferie delle grandi città e l’affollamento di pensioni, soffitte e seminterrati nelle zone più degradate hanno però rappresentato una delle massime espressioni delle difficoltà di inserimento dei migranti interni del secondo dopoguerra nei centri urbani del Centro-Nord.

Roma, ad esempio,  in quegli, anni subì una aggressiva speculazione edilizia che ne deturpò irrimediabilmente il volto. Speculatori edilizi, amministratori inetti o corrotti, immigrati disposti a vivere in situazioni disumane, senza acqua potabile e in condizioni igieniche insostenibili, probabilmente perché, in molti casi,  non dissimili da quelle che si erano lasciate alle spalle nelle terre di origine, furono i protagonisti che concorsero alla nascita dei cosiddetti “villaggi abissini”.

Nel secondo dopoguerra Roma conobbe una nuova fase di crescita demografica e di espansione urbana. Le periferie continuarono a crescere disordinatamente, anche per via della cronica debolezza degli strumenti programmatici adottati dalle amministrazioni. Solo una parte dei ceti sociali più umili e degli immigrati provenienti dalle regioni centro meridionali riuscì ad accedere ai benefici dei programmi di edilizia residenziale pubblica, come il piano Ina – Casa, avviati negli anni della ricostruzione. Gli altri continuarono nella pratica di ricavarsi un proprio spazio con mezzi di fortuna, alimentando il fenomeno dei “villaggi abissini”, ossia delle baraccopoli che caratterizzavano il paesaggio della periferia accanto ai nuovi quartieri di edilizia intensiva che andavano sorgendo in quegli anni (F. Salsano, Gli zingari a Roma tra integrazione e rifiuto. Dal 1870 al XXI secolo. In B. Coccia “Zingari”. Storia dei nomadi a Roma tra accoglienza e rifiuto. Apes, Roma 2012. pp. 155,156).

 

Ancora più dura la descrizione che della Roma di quegli anni fa Pier Paolo Pasolini:

(…) Ricordo che un giorno passando per il Mandrione in macchina con due miei amici bolognesi, angosciati a quella vista, c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la casettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano. Vedendoci passare con la macchina, uno, un maschietto, ormai ben piantato malgrado i suoi due o tre anni di età, si mise la manina sporca contro la bocca, e, di sua iniziativa tutto allegro e affettuoso ci mandò un bacetto. […] La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto (P.P. Pasolini, Vie Nuove, maggio 1958).

 

A Milano, all’inizio degli anni ’60, solo le pensioni e gli affittacamere autorizzati erano circa 13.000, un numero cui si andava ad aggiungere una quota consistente di abusivi. Nel 60% dei casi si trattava di stanze nelle zone più vecchie della città, carenti di servizi igienici e costantemente sovraffollate. Era qui, in un contesto che richiamava alla mente le cosiddette “isole della tisi” (in cui vivevano a New York molti dei nostri emigrati), che trovavano una prima sistemazione i migranti originari del Sud e del Nord – Est. “Agli occhi dei residenti nei paesi dell’alto milanese, gli immigrati si presentavano certamente come deli esuli, dei profughi, come ‘gente che aveva perduto una guerra’”(F. Alasia, D Montaldi, Milano, Corea: inchiesta sugli immigrati. Feltrinelli, Milano 1960. P.104).

Nell’hinterland milanese, i migranti trovavano alloggio nelle cosiddette “coree”, agglomerati abusivi costruiti nottetempo con materiali scadenti e pressoché privi di infrastrutture, che devono il loro nome al fatto di essere comparsi negli anni della guerra di Corea. Si tratta di un tipico esempio di abusivismo di necessità, favorito dalle vendite frazionate dei proprietari terrieri e sostanzialmente tollerato dalle amministrazioni locali, che una dopo l’altra hanno poi provveduto a regolarizzare le abitazioni attraverso progetti minimi di “sanatoria” presentati dai geometri locali. Meridionali, veneti, bergamaschi delle valli vivevano in decine di migliaia in questi agglomerati fatti di stradine sterrate e case a un piano o due prive di ogni servizio, il tutto raccolto in lotti spesso piccolissimi, comprati dagli immigrati con i loro risparmi.

Alla fine degli anni ’50 in una sola “corea” potevano vivere migliaia di persone. La più popolosa era quella di Limbiate, a una quindicina di chilometri dal centro di Milano, con ben 10.000 abitanti. A 13 chilometri dal capoluogo, nel Comune di Paderno Dugnano, all’inizio degli anni ’60 si contavano almeno quattro esempi di coree. Una di queste, abitata esclusivamente da popolazione immigrata di origine prevalentemente siciliana (528 persone), pugliese (366 persone) e veneta (198 persone), constava di 264 alloggi per altrettante famiglie e un totale di 1.324 persone. Quasi un terzo delle sistemazioni era situato in scantinati e seminterrati, un quarto delle famiglie viveva in un unico vano e nel 60% dei casi gli alloggi erano privi del bagno.

Il meccanismo di insediamento tipico di una “corea” milanese aveva il proprio fulcro nei primi migranti interni, giunti intorno al 1950 e selezionati tanto sul piano delle competenze che su quello della disponibilità di mezzi. In quegli anni il prezzo dei terreni era ancora relativamente basso e molti di questi “pionieri” risolsero il problema della casa comprando piccoli appezzamenti e costruendo in gran fretta le prime abitazioni. Quando, in un secondo momento, si attivò la catena migratoria e gli arrivi si moltiplicarono, trovare un alloggio nell’area milanese era sempre più difficile e i prezzi dei materiali e dei terreni erano notevolmente cresciuti. In più i nuovi arrivati erano spesso semplici manovali, privi di una reale conoscenza del mestiere di muratore e, per loro, l’unica possibile soluzione al problema dell’alloggio era quella di rivolgersi ai “compaesani” partiti in precedenza. La figura del “pioniere” diventava così una figura chiave, sia come “intermediario” con la società d’arrivo, sia come capomastro per la costruzione delle case altrui, sia come affittuario degli ulteriori locali che nel frattempo aveva costruito, perlopiù scantinati e piani rialzati. I pionieri potevano anche assumere la funzione di “amministratore” di stabili e ditte, di procacciatori di prestiti e, dietro pagamento, potevano risolvere ogni problema di lavoro, mediando tra gli interessi degli immigrati e quelli dei locali. Per i nuovi arrivati, invece, i processi di interazione e scambio, almeno all’inizio, si giocavano interamente all’interno del microcosmo della “corea”, dove si rispondeva alla chiusura della società locale intessendo solide reti di solidarietà.

A Milano come altrove, gli operai edili che non potevano sottrarre dalla paga il necessario per una sistemazione privata venivano alloggiati in baracche appositamente predisposte nei cantieri o anche nei locali delle case in demolizione oppure ai primi piani di quelle in costruzione.

La presenza delle baracche veniva spesso usata dalle ditte edili come uno strumento d’attrazione e stabilizzazione della manodopera: da un lato si offriva una soluzione molto economica al problema dell’alloggio (difficile da fronteggiare soprattutto per chi arrivava nelle grandi città del Nord all’inizio degli anni ’60), e dall’altro si garantiva la disponibilità e la stabilità della manovalanza direttamente sul luogo di lavoro. Il progressivo e convulso estendersi del processo di urbanizzazione, infatti, comportava una grande dispersione della popolazione immigrata (che costituiva il grosso della manovalanza edile) sia sul territorio urbano che nei comuni dell’hinterland. E una tale dispersione danneggiava gli interessi degli imprenditori, preoccupati di poter contare su una manodopera sempre disponibile a soddisfare le esigenze del cantiere.

Nelle baracche, generalmente in legno con un tetto di lamiera, si organizzava sia il dormitorio, sia la mensa. L’arredamento era scarno ed essenziale: brande o letti a castello, armadietti di ferro, a volte un tavolo e, al centro, una stufa a legno o a carbone.

Qui potevano alloggiare soltanto gli operai e non i loro familiari. All’insaputa dei dirigenti dell’impresa, comunque, qualche custode era solito far entrare persone esterne al gruppo di lavoro, dietro il pagamento di 50/100 lire a notte, all’inizio degli anni ’60.

Il numero massimo dei posti letto, almeno in linea teorica, era fissato al momento dell’impianto del cantiere, secondo quanto dettato dall’apposita normativa. Nei fatti, però, nei periodi di maggior affollamento si registravano aumenti anche del 50% rispetto al tetto massimo stabilito. Questo generalmente avveniva nei momenti di maggior intensità del lavoro, quando la giornata lavorativa poteva durare anche 15/16 ore consecutive.

Come nel caso delle pensioni o degli affittacamere, nei baraccamenti di cantiere si registrava una forte rotazione delle presenze, nonché la formazione di “sottogruppi” basati sulla provenienza regionale e sulla la qualifica: gli operai specializzati, in gran parte settentrionali, tendevano a “isolarsi” dai manovali, perlopiù di origine meridionale. Questo processo si attenuava man mano che diminuiva l’età degli interessati: l’interazione era più facile tra i più giovani, accomunati da una maggiore attrazione per i modelli di comportamento proposti dalla grande città.

A Torino, una città che tra il ’51 e il ’61, ha conosciuto un aumento della popolazione di oltre il 40%, superando il milione di abitanti, il quartiere di San Salvario, nei pressi della stazione di Porta Nuova, ha rappresentato per anni il primo approdo dei migranti. Era qui che arrivava il famigerato “treno del sole”, noto anche come “freccia del Sud” e protagonista di tante prime pagine e pellicole di quegli anni, ma anche il direttissimo di Lecce e i tanti treni che da Genova portavano in città i sardi partiti da Porto Torres.

All’inizio degli anni ’60, la maggior parte dei migranti aveva qualcuno che l’aspettava in stazione e che poteva offrire un aiuto per la prima sistemazione, magari aggiungendo un materasso in terra. Per gli altri l’unica soluzione al problema dell’alloggio erano le pensioni e gli affittacamere che “noleggiavano” i posti letto secondo i turni delle fabbriche e non era raro passare i primi giorni all’addiaccio, in attesa della prima paga. D’inverno si cercava riparo soprattutto nei vagoni fermi in stazione, dove per non farsi cacciar via dai guardiani bastava pagare un biglietto per uno dei paesi vicini. Poi, spesso, si finiva per alloggiare nelle soffitte o negli scantinati dei vecchi palazzi del centro, dove i servizi si trovavano nei corridoi e c’era un solo bagno anche per 40/50 persone.

Come è stato acutamente osservato

la città stava cominciando a mostrare il proprio aspetto di matrigna agli ultimi arrivati, dando fiato a quella vasta aneddotica che, per gli uni (i residenti storici), serviva a fornire le prove del carente grado di civiltà di chi era appena disceso dai treni del Sud, mentre per gli altri (gli immigrati) testimoniava della grettezza, dell’avidità e dell’ostinata ristrettezza mentale dei piemontesi, pronti a discriminare socialmente coloro stessi da cui avevano appena accettato il denaro delle pigioni (G. Berta, Mirafiori, Il Mulino, Bologna, p. 46).

Nel capoluogo piemontese, però, non si sono venuti a creare agglomerati abusivi analoghi alle “coree” milanesi o alle borgate romane, ma già nel 1951, al momento del censimento, solo a Corso Polonia le baracche offrivano riparo a ben 72 famiglie, 28 delle quali originarie di San Felice Cancello (Caserta) e 10 di Lercara Freddi (Palermo). Quattro anni dopo, nel 1955, le famiglie erano raddoppiate (140) e, nel complesso, erano 589 i baraccati di Corso Polonia, di cui il 56,7% meridionali e il 25% veneti o istriani (i piemontesi rappresentavano il 6,6%).

Un altro caso esemplare è quello della “cartiera”: un caseggiato di 4 piani in corso Regio Parco adibito ad abitazione. Su ogni piano un lungo corridoio portava agli alloggi in affitto: 134 camere in totale, di cui 40 soffitte. I bagni, o meglio le latrine, erano in comune e se ne contavano 4 per ogni piano. Qui, nei primi anni ’60, vivevano circa 150 famiglie, un centinaio delle quali di origine meridionale, soprattutto pugliese.

Del tutto simile era la situazione negli alloggi dell’Ente Comunale di Assistenza, dove nel 1960 vivevano circa 1.200 famiglie, per un totale di circa 4.000 persone. Gli inquilini, qui come in “cartiera”, erano in larghissima maggioranza occupati, perlopiù in fabbrica o nell’edilizia.

Solo dopo qualche anno gli immigrati riuscivano a trovare una sistemazione dignitosa e dalle baracche, le soffitte e gli scantinati della “città vecchia” si stabilivano nei quartieri periferici di nuova costruzione. Qui i proprietari delle abitazioni non erano privati cittadini, ma ditte che gestivano dozzine di palazzi, e questo agevolava la ricerca di un appartamento per il minor peso che pregiudizi e stereotipi assumevano nel corso delle trattative.

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