giovedì, Maggio 2 2024

Dai dati ISTAT (ISTAT Sommario Statistiche storiche 1926 – 1985) risulta che nel 1961 oltre 20,2 milioni di italiani, pari al 40% della popolazione totale, risiedevano in Comuni con meno di 10.000 abitanti, mentre venti anni dopo tale cifra si ridusse a 18,7 milioni in valore assoluto e a circa un terzo (33,1%) in percentuale. Parallelamente, se nel 1961 le città con oltre 100.000 abitanti contavano 12,5 milioni di residenti, nel 1981 questi aumentarono fino a sfiorare quota 16 milioni (15,9), con un incremento in percentuale dal 24,7% al 28,2% del totale nazionale, nel frattempo cresciuto di circa 6 milioni.

Sembrerebbe dunque di poter ravvisare un costante ed omogeneo processo di calo demografico per i Comuni meno popolosi ed una parallela e altrettanto continua crescita delle maggiori città. Se ciò fosse vero, si potrebbe senz’altro collocare i decenni Sessanta e Settanta su una linea di assoluta continuità con gli anni Cinquanta, che videro l’avvio di un poderoso trasferimento di popolazione dalle campagne e dai piccoli centri alle città, sia a breve che a lungo raggio, nell’ambito di “uno sviluppo territoriale fortemente polarizzato, dominato cioè da alcuni magneti principali (le grandi città, specie quelle industriali del Nord) e dai campi di forza che essi hanno generato nel loro intorno regionale e lungo i principali assi di comunicazione” (G. Dematteis, Le trasformazioni territoriali e ambientali, in Storia dell’Italia repubblicana, cit. p. 665).

Tale ricostruzione, tuttavia, ci sembra descrivere fedelmente solo quanto accaduto  negli anni Sessanta, mentre il decennio seguente appare caratterizzato da dinamiche più complesse e articolate. Se infatti la quota di popolazione residente in Comuni con meno di 10.000 abitanti risulta in costante calo lungo l’intero periodo preso in esame, seppur con un sensibile rallentamento negli anni Settanta (dal 40% del 1961 si passa al 35,1% del 1971 e quindi al 33,1% del 1981), le dinamiche demografiche delle città con oltre 100.000 abitanti non seguono un trend altrettanto univoco. Dal 24,7% del totale della popolazione nazionale nel 1961, la quota dei residenti nei più popolosi centri urbani sale infatti fino a toccare il 29,1% nel 1971, salvo poi scendere al 28,2% dieci anni seguenti. Nel decennio Settanta si registra dunque una netta inversione di tendenza nel processo di espansione demografica delle grandi città che, pur guadagnando abitanti in valore assoluto (circa 150.000 in più), ne perdono relativamente al totale della popolazione nazionale (-0,9%).

Questa variazione di tendenza è imputabile alle grandi trasformazioni nella distribuzione della forza lavoro tra i vari settori di attività economica (agricoltura, industria e terziario) che caratterizzarono i decenni Sessanta e Settanta. A questo riguardo, è stato giustamente osservato da Vittorio Vidotto che “l’Italia si era industrializzata a partire dalla fine dell’Ottocento, ma era a lungo rimasta una nazione prevalentemente agricola se guardiamo alla distribuzione della forza lavoro” (V. Vidotto, Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi. Laterza, Roma – Bari, 2005) p.29.), tanto che fu solo nel 1958 – cioè nell’anno che convenzionalmente segna l’avvio del “miracolo economico” – che il numero degli addetti al settore secondario superò quello dell’agricoltura, con circa 7.077.000 occupati contro 6.974.000. Dopo aver realizzato questo storico sorpasso, nel corso degli anni Sessanta il numero degli addetti all’industria continuò a crescere, pur con alcune oscillazioni, fino a superare quota 8,2 milioni alla fine del decennio, mentre gli occupati in agricoltura si riducevano di quasi la metà, scendendo sotto quota 3,7 milioni. Nel frattempo, d’altro canto, aumentavano ancor più velocemente gli occupati nel settore terziario, che, dopo aver superato anch’esso quello agricolo, vide ridursi il proprio distacco dall’industria a meno di 650.000 unità (7.565.000 circa a fronte di 8.209.000 nel 1970).

ITALIA. Occupati presenti per settore di attività economica (1961-1970; dati in migliaia)

Data Settore primario Settore secondario Settore terziario Data Settore primario Settore secondario Settore terziario
1961 6.207 7.647 6.578 1966 4.660 7.621 6.876
1962 5.810 7.810 6.591 1967 4.556 7.783 7.044
1963 5.295 7.986 6.613 1968 4.247 7.890 7.210
1964 4.967 7.996 6.885 1969 4.023 8.048 7.361
1965 4.956 7.728 6.785 1970 3.683 8.209 7.565

FONTE: Dati Istat (Sommario di statistiche storiche 1926-1985)

 

I dati statistici indicano in modo evidente che il decremento degli occupati nel settore agricolo proseguì lungo tutti gli anni Settanta, fino a raggiungere quota 2.760.000 alla fine del decennio. Gli addetti alle attività industriali, invece, restarono sostanzialmente stabili, mentre l’occupazione nel terziario continuò ad aumentare a passo più che sostenuto, sfondando quota 10 milioni nel 1980 e rappresentando così da sola circa la metà del totale degli occupati a livello nazionale (20.662.000).

ITALIA. Occupati presenti per settore di attività economica (1971-1980; dati in migliaia)

Data Settore primario Settore secondario Settore terziario Data Settore primario Settore secondario Settore terziario
1971 3.598 7.561 8.406 1976 3.020 7.551 9.474
1972 3.339 7.434 8.603 1977 2.950 7.544 9.658
1973 3.242 7.470 8.815 1978 2.919 7.520 9.858
1974 3.174 7.586 9.089 1979 2.840 7.532 9.676
1975 3.047 7.562 9.288 1980 2.760 7.586 10.317

FONTE: Dati Istat (Ibidem)

 

Nel complesso, tali dati sono molto significativi in relazione al tema delle migrazioni interne. Un così rapido e consistente spostamento di occupati dal settore primario verso il secondario e il terziario si accompagnò infatti a vasti movimenti di popolazione dalle aree rurali verso quelle urbane, dove risultavano concentrati la maggior parte dei posti di lavoro nell’industria e nei servizi. In altre parole, all’esodo agricolo si accompagnò un esodo rurale. Come evidenziato da Guido Crainz, dalla seconda metà degli anni Cinquanta i flussi migratori interni, partiti inizialmente dalle aree montane e collinari più povere, coinvolsero progressivamente anche le più fertili ed avanzate zone pianeggianti, “segnando la fine (o l’inizio della fine) dei diversi mondi rurali che compon[evano] il paese” (G Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra gli anni cinquanta e sessanta. Donzelli, Roma, 1996. p.87).

Si trattò di uno sconvolgimento epocale, poiché i lavoratori agricoli che abbandonarono le campagne – braccianti, mezzadri o contadini proprietari – “non sarebbero più tornati ad essere tali. Figure sociali che avevano dominato per secoli la storia di questo paese uscivano di scena. E con essi si sgretolava un sistema produttivo e un sistema di relazioni sociali fondato sul predominio della forza lavoro umana, sul ruolo centrale della famiglia contadina” (V. Vidotto, Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi. Cit., p. 30).

Tali processi migratori erano guidati da una molteplicità di fattori: alcuni “endogeni” o di spinta, come le difficili condizioni di vita in aree che spesso mancavano delle più elementari infrastrutture e servizi, o la progressiva meccanizzazione delle attività agricole, che consentiva notevoli risparmi di manodopera aumentando così la disoccupazione e la sottoccupazione nelle zone rurali; altri “esogeni” o di attrazione, come il crescente, e per molti irresistibile, richiamo delle città, che sembravano promettere non solo un maggiore benessere economico, ma più in generale “nuovi modi di lavorare e di vivere, di concepire lo spazio e il tempo, la mobilità e l’immobilità, le distanze e le vicinanze” (G Crainz, Storia del miracolo italiano. Cit., p. 95). Ad esempio nel Meridione ebbe un ruolo fondamentale l’istituzione, nel 1950, della Cassa del Mezzogiorno.

 

Una parte rilevante dell’esodo agricolo meridionale degli anni Cinquanta (e forse anche dei primi anni del decennio successivo) va infatti messa in relazione con la possibilità di occupazione nei cantieri edili attivati dai finanziamenti della Cassa; si trattava per lo più di occupazioni temporanee che operarono una sorta di mobilitazione della sottoccupazione rurale; ma una volta lasciati i campi queste forze di lavoro non vi hanno più fatto ritorno, scegliendo piuttosto l’emigrazione verso altre zone del Mezzogiorno, o verso il Nord, o addirittura verso l’estero (U. Ascoli, Movimenti migratori in Italia. Cit. p.114).

 

 

La top ten delle metropoli italiane

 

ITALIA. Popolazione residente nei dieci Comuni più popolosi (1951-1981)

  1951 1961 1971 1981
Torino 719.300 1.025.822  1.167.968  1.117.154
Milano   1.274.154  1.582.421 1.732.000  1.604.773
Genova 688.447  784.194  816.872  762.895
Venezia 316.891  347.347  363.062  346.146
Bologna 340.526 444.872  490.528  459.080
Firenze 374.625 436.516   457.803   448.331
Roma 1.651.754 2.188.160  2.781.993  2.840.259
Napoli 1.010.550 1.182.815 1.226.594  1.212.387
Bari 268.183 312.023  357.274  371.022
Palermo 490.692 587.985  642.814  701.782

FONTE: Dati Istat (Popolazione residente dei Comuni. Censimenti dal 1861 al 1991)

 

Tralasciando per ora il rallentamento nella crescita o addirittura la flessione demografica che si registrarono in molte tra le maggiori città italiane negli anni Settanta, appare chiaro dai dati riportati in tabella come negli anni Cinquanta e Sessanta l’aumento di popolazione coinvolse tutti i maggiori centri urbani della penisola. Tale circostanza si spiega bene alla luce di quanto detto sopra a proposito della coesistenza di flussi migratori a corto, medio, lungo e lunghissimo raggio. Se infatti chi emigrava dalle regioni centrali e settentrionali tendeva in buona parte a rimanere all’interno della stessa ripartizione territoriale, andando spesso ad ingrossare la popolazione delle città capoluogo, anche la maggioranza di coloro che abbandonavano le campagne del Sud e delle isole si trasferivano, almeno in una prima fase, nei centri urbani della stessa o di altre regioni del Mezzogiorno.

A questo proposito, d’altro canto, va evidenziato come, soprattutto da parte degli osservatori coevi ma anche nell’ambito della riflessione storiografica, il flusso di lavoratori agricoli che lasciarono le campagne meridionali alla volta delle città del “triangolo industriale” sia quello che ha ricevuto la maggiore attenzione e considerazione, fin quasi ad assurgere a paradigma unico di un fenomeno migratorio che si caratterizzò invece per la sua complessità e l’articolazione in numerose correnti con partenze, destinazioni e caratteristiche piuttosto diversificate. È ipotizzabile del resto che a determinare questa circostanza abbia concorso, oltre all’effettiva consistente portata dei flussi dal Mezzogiorno al “triangolo industriale”, anche l’impatto sull’opinione pubblica della produzione letteraria, musicale e cinematografica relativa alle migrazioni interne, che proprio su questi flussi “classici” si è prevalentemente concentrata.

Minore attenzione è stata quindi rivolta ad altre componenti della mobilità interna, il cui rilievo quantitativo e qualitativo meriterebbe invece una più adeguata considerazione. Basti pensare al profondo “rimescolamento” interno al Mezzogiorno stesso, con lo sviluppo delle grandi concentrazioni metropolitane di Napoli e Palermo, di città di medie dimensioni come Bari, Catania, Messina, Cagliari e Taranto, e di centri più piccoli come Reggio Calabria, Foggia, Siracusa, Sassari e Cosenza. Scarsa è anche la conoscenza dei flussi di immigrazione che investirono Roma, nonostante la popolazione della sua area metropolitana crebbe “ad un tasso altissimo, pari, ed in certi casi addirittura superiore, a quello delle aree del triangolo industriale” (S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90. Marsilio, Venezia, 1992, p. 234), con le conseguenze alle quali prima abbiamo accennato.

A livello di composizione sociale, questi flussi migratori presentavano una maggiore articolazione rispetto alla “classica” figura del lavoratore agricolo sottoccupato che abbandonava la terra alla ricerca di un “posto” in fabbrica nelle città industriali del Nord. Ad esempio, nell’emigrazione dal Meridione non erano coinvolti solo i contadini, ma anche “vasti strati di piccola borghesia povera, di ceto impiegatizio, sempre più spesso anche figure e gruppi della piccola borghesia professionale, mossi dalla ricerca di più elevati standard di vita per sé e per i propri figli” ( P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1997, p. 107). Più in generale, a metà degli anni Sessanta si potevano distinguere – in base al grado di istruzione dei migranti – un esodo “manuale” verso le regioni del triangolo industriale, composto in larga parte da aspiranti operai in possesso della sola licenza elementare, e un esodo “intellettuale” con più alti livelli di scolarizzazione diretto verso il Nord-est e il Centro, con Roma in prima linea, “dove ci si sposta[va] non per fare gli operai ma i poliziotti, i carabinieri, gli insegnanti, e poi gli impiegati nei ministeri, nelle prefetture, negli uffici postali, nelle intendenze di finanza, e così via”( S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Cit., p. 234).

 

 

 

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