domenica, Gennaio 26 2025

La cattiva politica contribuisce a spersonalizzare l’immigrato, a renderlo un numero da inserire in bollettini periodici relativi agli sbarchi, o peggio, alle tragedie del mare; lo rende una non – persona priva dei diritti fondamentali, ma utile all’economia nazionale, perché disposta a svolgere quei lavori faticosi, pericolosi o degradanti, che gli italiani non sono più disposti a fare. Basti pensare a quanto successo nella cosiddetta era post – COVID, retoricamente immaginata e raccontata da istituzioni e leader politici come un nuovo inizio, come l’alba di un mondo migliore, riguardo ai permessi di soggiorno da concedere ai lavoratori stranieri indispensabili ai processi produttivi dell’agricoltura. L’ampio e animato dibattito politico, caratterizzato da minacce di dimissioni di ministri, da levate di scudi dei gruppi parlamentari, da annunciate crisi di governo, in sostanza ha riguardato la concessione di diritti in base all’utilità delle persone, come se i diritti non fossero qualcosa di innato e indisponibile da parte del legislatore, bensì qualcosa che si acquisisce per merito o in base alla propria “utilità”.

Queste norme, ma anche solo gli stessi dibattiti che le accompagnano, intossicano la coscienza oltre che la vita della nostra società. Nell’ambito della cultura civile riflettono e alimentano il razzismo sempre più presente nel comune sentire, mentre in campo economico consentono a qualche imprenditore senza scrupoli, certo dell’impunità e dell’indifferenza sociale, di sfruttare gli immigrati, identificati ormai socialmente e legalmente come non – persone svalutando, di fatto, tutto il lavoro salariale a discapito anche dei lavoratori italiani, sia a livello di reddito che di diritti; questi ultimi, in particolare per alcune categorie, appaiono sempre più come lontani ricordi.

Il quadro non sarebbe completo se non si facesse riferimento ad un ulteriore, fondamentale aspetto della narrazione che la politica e la stampa fanno dell’immigrato: lo stereotipo dell’immigrato delinquente. Questo stereotipo consiste nell’attribuire agli immigrati in maniera esclusiva tutta una serie di micro reati (furti, scippi, spaccio, prostituzione) che, per quanto in costante diminuzione nel nostro Paese, risultano particolarmente odiosi alla popolazione e riempiono quotidianamente le pagine delle testate giornalistiche cartacee e televisive. Dunque l’immigrato oltre a vivere una condizione di illegalità ontologica, per il fatto stesso di essere immigrato, ne vive una seconda a causa della sua innata propensione a delinquere mettendo così a rischio la sicurezza collettiva e il vivere quotidiano del popolo italiano, noto in tutto il mondo per il rigoroso, pedissequo rispetto delle leggi.

Questa narrazione, resa possibile e particolarmente efficace dalla colpevole complicità di una informazione sempre più prezzolata, accondiscendente al potere e propensa a seguire l’aria che tira piuttosto che a svolgere un rigoroso servizio di informazione, a ben vedere non è casuale; sembra inserirsi perfettamente in un fenomeno sociopolitico particolarmente evidente in questi ultimi tempi: il ribaltamento del conflitto sociale. Da sempre le lotte sociali di rivendicazione di diritti si sono svolte partendo dai ceti sociali più svantaggiati contro la classe dirigente, politica ed economica, ritenuta responsabile delle condizioni di malessere economico e sociale delle fasce più povere della popolazione. Oggi non è così. Grazie a slogan efficaci e a una narrazione distorta della realtà, è prevalsa la tesi che se manca il lavoro, è colpa degli immigrati che ce lo rubano; se mancano le case popolari, è colpa degli immigrati che le occupano o che se le vedono legittimamente attribuite dagli enti preposti a scapito degli italiani; se il trasporto pubblico non funziona, è colpa degli immigrati che non pagano il biglietto… e potrebbe seguire un lungo elenco di esempi. Insomma, la rabbia di chi sta male è sapientemente indirizzata contro chi sta peggio. Per cui, se manca il lavoro non è colpa di una classe dirigente che negli ultimi decenni ha tutelato solo i propri interessi politici ed economici (in termini di consenso elettorale e di profitto) a discapito dei lavoratori, piuttosto che mettere in atto politiche di sviluppo economico e produttivo in grado di generare un mercato del lavoro vitale e in grado di valorizzare la forza lavoro presente nel nostro Paese ma è colpa degli immigrati.  Se le famiglie più disagiate non riescono a permettersi un alloggio non è colpa degli amministratori locali, che da almeno vent’anni non riescono a varare un piano serio di edilizia popolare e che gestiscono in maniera per nulla trasparente quella esistente, è colpa degli immigrati. Se il trasporto pubblico non funziona non è colpa dei medesimi amministratori che per incapacità non riescono a gestire la rete dei trasporti urbani (a Roma l’ultimo ammodernamento serio della flotta dei mezzi pubblici risale al Grande Giubileo del 2000 e il servizio è gestito da una società praticamente fallita), è colpa degli immigrati.

In questo contesto socio culturale, nel quale sempre più si alimenta una sorta di guerra tra poveri che vede soccombere quelli posti in una condizione di maggior debolezza, anche giuridica, è veramente difficile immaginare un lineare processo di integrazione degli immigrati.  A (quasi) nulla servono gli accurati studi sulla imprenditoria immigrata che dimostrano la volontà e la capacità degli immigrati di inserirsi nel tessuto economico e sociale del nostro Paese senza togliere niente a nessuno, ma contribuendo piuttosto allo sviluppo dell’imprenditoria italiana[1]; a nulla servono gli studi dell’INPS che più volte hanno rivelato come proprio gli immigrati sostengano, in questa congiuntura economica, il sistema previdenziale italiano; a nulla servono le tante, belle storie di integrazione riuscita, di famiglie straniere, che da anni vivono in Italia perfettamente integrate.  La cultura dominante ci dice che gli immigrati sono un peso, un aggravio per la nostra economia e per la nostra società, che non ce ne possiamo fare carico e che dobbiamo assolutamente impedire che arrivino nel nostro Paese.

Questo atteggiamento di colpevolizzazione del più debole, in realtà non è per nulla originale. Già nel I secolo Fedro narrava la celebre favola Il lupo e dell’agnello. Un lupo, volendo mangiare un agnellino, prima lo accusa di inquinargli l’acqua del fiume nel quale sta bevendo, nonostante l’agnello contesti di essere a valle lungo il corso d’acqua, quindi lo accusa di aver parlato male di lui sei mesi prima, ma il povero ovino obietta che sei mesi prima non era ancora nato; spazientito il lupo dice che certamente sarà stato il padre a parlar male di lui e lo divora. La conclusione di Fedro è lapidaria: Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.  

 

[1] Preziosi in questo senso gli annuali dossier del Centro Studi e Ricerche Idos Rapporto immigrazione e imprenditoria.

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