mercoledì, Maggio 1 2024

Durante la Seconda Guerra mondiale si assiste ad una significativa mobilità interna. Negli anni che vanno dal 1941 al 1944, a causa degli sfollamenti dalle grandi città, in particolare quelle soggette a bombardamenti, e della guerra civile che divide in due il Paese, migrano circa 938.000 persone all’anno. Naturalmente i dati relativi a questo periodo non possono che essere approssimativi, mancando fonti certe ed essendo questi spostamenti improntati all’estemporaneità e alla precarietà.

Terminata la guerra, l’andamento e la caratterizzazione della mobilità interna vanno progressivamente mutando in coincidenza con i cambiamenti socioeconomici che in quegli anni ridisegnarono la vita quotidiana oltre che l’assetto istituzionale del nostro Paese. La sconfitta morale oltre che militare inflitta dalla guerra all’Italia lascia il Paese in balia della miseria e della fame. Il governo da il via ad un imponente piano di ricostruzione e di ristrutturazione e ammodernamento dell’intero sistema industriale, ma questo richiede tempo e sulla società italiana incombe lo spettro della disoccupazione, stimata intorno ai due milioni di persone, esclusi i sottoccupati e i disoccupati nascosti, numerosi soprattutto nel settore agricolo.

Il giovane, fragile Stato democratico non poteva certo permettersi masse di diseredati, e tanto più non poteva permettere che queste confluissero nei centri urbani, aumentando il generale stato di povertà e alimentando eventuali fermenti di rivolta sociale. Al fine di decomprimere la pressione esercitata dalla  disoccupazione, il Governo mise in atto una serie di accordi con diversi Paesi europei volti ad agevolare l’emigrazione italiana. Infatti,

non solo esponenti governativi, ma anche studiosi indipendenti e progressisti, come ad esempio Manlio Rossi-Doria, caldeggiarono in quegli anni l’emigrazione come soluzione all’eccedenza di manodopera e alla sovrappopolazione delle regioni del Mezzogiorno.[…] A questa necessità si opponeva, almeno nelle sue dichiarazioni, la sinistra. L’emigrazione veniva individuata – peraltro non senza ragione – come un espediente delle forze governative per ridurre le tensioni sociali e per ottenere i vantaggi economici delle rimesse (E Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro. In Storia dell’Italia repubblicana. La trasformazione dell’Italia sviluppo e squilibri. Giulio Einaudi Editore, Torino, 1995. P.432).

 

Il primo e forse più significativo accordo in tal senso fu il protocollo d’intesa con il Belgio del 23 giugno 1946.

Alla fine della guerra il Belgio, ricco, in particolare nella regione della Vallonia, di importanti giacimenti carboniferi, denunciava però una significativa carenza di mano d’opera sia per le perdite inflitte alla popolazione maschile belga dal conflitto, sia perché il lavoro in miniera veniva svolto in condizioni di assoluta precarietà e pericolosità e i belgi difficilmente lo volevano svolgere.

In un primo tempo furono adoperati i prigionieri tedeschi ma, a causa del rimpatrio dei prigionieri di guerra, fissato entro il 1947, occorreva trovare nuove soluzioni. L’Italia, al contrario, impegnata in quegli anni in un importante programma di riorganizzazione del sistema produttivo, ma, da sempre, povera di materie prime, aveva, da un lato, estremo bisogno di carbone e dall’altro, una notevole eccedenza di forza lavoro. Fu così che dall’incontro tra la domanda di manodopera non qualificata e a basso costo del Belgio e dall’eccesso di lavoratori con scarsissima qualifica presenti in Italia nonché dall’assoluta necessità di quest’ultima di procurarsi del carbone a poco prezzo, scaturirono gli accordi del 1946.  “II Governo italiano farà tutto il possibile per inviare in Belgio 2.000 lavoratori la settimana” (P.to 11 Protocollo Italo – Belga 23 giugno 1946) recitava l’Accordo; in cambio l’Italia avrebbe ottenuto 200 kg di carbone al giorno a prezzo agevolato. Questa opportunità di lavoro fu pubblicizzata con manifesti che oggi verrebbero definiti “pubblicità ingannevole” in tutte le zone più depresse del Paese, portando in Belgio, tra il 1946  e il 1956, otre 140mila lavoratori che furono costretti a vivere in baracche fatiscenti costruite dai tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale per ricoverare i prigionieri di guerra adibiti ai lavori forzati nelle miniere, e costretti a lavorare in condizioni disumane. In realtà, in base agli accordi del 1946,  il vitto e gli alloggi per i minatori dovevano essere garantiti dalle singole società minerarie sotto la supervisione del Governo belga. Questo portò inevitabilmente a evidenti disparità di trattamento nelle cinque zone minerarie nelle quali confluirono gli emigranti italiani.

Apparentemente migliori le condizioni di vita dei minatori italiani in Belgio riscontrate nel 1949 dal Sottosegretario agli Esteri Aldo Moro, chiamato a riferire, a nome del Governo, a seguito di diverse denunce apparse sul “Bollettino della Società Umanitaria”.

Chi scrive si è fatto carico, nell’esercizio dei suoi poteri di controllo, di visitare minutamente i luoghi di lavoro e gli alloggi dei minatori italiani in Belgio e di accertare col più scrupoloso esame quali siano le condizioni di vita dei nostri connazionali in quel Paese. E non ha riscontrato nulla di così catastrofico. Ha riscontrato che i nostri vivono una vita dura sì, per le caratteristiche proprie del lavoro in miniera, ma onesta e sana; e la vivono con coraggiosa fierezza e con piena consapevolezza umana (In A. Fontani, Gli emigrati. L’altra faccia del miracolo economico. Editori Riuniti, Milano 1962. Pp. 148,149).

 

L’8 agosto del 1956, con “coraggiosa fierezza e con piena consapevolezza umana”, 136 minatori italiani persero la vita a Marcinelle in fondo ad una miniera. A seguito di questo incidente annunciato ebbe fine il commercio di vite umane in cambio di carbone.

Oltre al Belgio furono meta dell’emigrazione italiana, anche se in misura minore, Francia, Germania, Gran Bretagna, Canada, Australia, Argentina e altri Paesi dell’America Latina essendosi chiusa nel frattempo la destinazione statunitense.

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